Sulla malattia COVID 19, causata dal coronavirus SARS CoV2, sono state scritte migliaia di pagine sui giornali e sul web e, ormai a due anni di distanza dalla sua comparsa, ancora abbiamo tanto da scoprire.
All’inizio si è presentata per lo più come una grave polmonite interstiziale, ad alta contagiosità e con i dati di mortalità che tutti conosciamo.
Poi con il passare del tempo, le migliori conoscenze scientifiche e probabilmente anche per le mutazioni del virus, si è trasformata in una malattia multiorgano, in grado cioè di colpire non solo i polmoni ma anche il cuore, il fegato, i reni, il sistema nervoso, la cute.
Gli sforzi per contenere la malattia si sono concentrati sempre più sulla prevenzione (distanziamento sociale, igiene, vaccinazione) e su nuove terapie (anticorpi monoclonali, nuovi farmaci antivirali sperimentali) con il risultato che con il passar del tempo chi si ammala di COVID-19 riesce più facilmente ad avere un decorso meno grave ed una maggiore probabilità di guarigione.
Ma la scomparsa dei sintomi e soprattutto la negativizzazione del tampone molecolare, anche ripetuto permettono veramente di dire che la malattia è terminata?
Quando si può veramente affermare che la malattia è terminata?
EFFETTI A LUNGO TERMINE DA TUTTI I CORONAVIRUS
Nei pazienti sopravvissuti alle precedenti epidemie di coronavirus come la SARS del 2003 e la MERS del 2012 era stata già segnalata la persistenza di alcuni sintomi dopo la malattia come l’affaticamento, la difficoltà respiratoria, i dolori toracici, le artralgie ed un peggioramento generale della qualità della vita.
Probabilmente il danno cellulare prodotto dalla reazione immunitaria con eccessiva produzione di citochine e lo stato di ipercoagulabilità del sangue sono tra i responsabili di questi effetti a distanza.
Nella malattia COVID-19 si cominciano a studiare meglio questi effetti a distanza, con l’aumentare dei pazienti guariti dalla malattia, distinguendoli in effetti post acuti ,quando si presentano a 4-12 settimane dalla scomparsa della malattia e negativizzazione del tampone molecolare, ed in effetti a lungo termine (Long COVID) quando si presentano dopo almeno 12 settimane dal tampone negativo e non sono attribuibili ad altra causa.
Nel Long COVID il sintomo più comune è l’affaticamento, presente in oltre il 50% dei pazienti guariti; segue la difficoltà respiratoria (40%), i dolori articolari (30%) ed i dolori toracici (20%).
Meno frequenti sono i disturbi psichiatrici, in particolare il disturbo post traumatico da stress, seguito dall’ansia, dalla depressione, dalla difficoltà alla concentrazione, dall’insonnia.
Si è cercato di mettere in relazione la gravità del COVID-19 con le sequele post acute e Long COVID, ma non ci sono dati concordi.
Ad esempio le difficoltà respiratorie sono spesso correlate alla persistenza di lesioni dell’interstizio polmonare. Pazienti che hanno avuto nella fase acuta quadri radiologici di grave impegno dell’interstizio polmonare, finiti anche in terapia intensiva con respirazione assistita, spesso hanno guarigioni complete con quadro radiologico normalizzato a 1-3 mesi dalla fine della malattia. Al contrario pazienti con lesioni non gravi del polmone durante la fase acuta che non hanno richiesto neppure il ricovero in terapia intensiva, possono conservare un danno polmonare (responsabile del sintomo di difficoltà respiratoria) per mesi e non si riesce a dare una spiegazione comprensibile a questo diverso comportamento della malattia.
Altro sintomo presente in circa il 20% dei pazienti con Long COVID è la perdita dei capelli.
Ci sono alcuni fattori che probabilmente predispongono a questi effetti tardivi e sono stati imputati in particolare alla obesità, al diabete, alle malattie cardiovascolari croniche, all’insufficienza renale, alle neoplasie ed ai trapianti d’organo. Le stesse comorbilità probabilmente responsabili di una maggiore aggressività della malattia nella fase conclamata.
FOLLOW UP POST COVID-19
La sempre maggiore diffusione di pazienti guariti dal COVID-19, ma con effetti a lungo termine ha da tempo richiesto l’organizzazione di un sistema di follow up di questi pazienti, con linee guida diagnostiche e terapeutiche che si stanno lentamente delineando.
Ad esempio ai pazienti che presentano rilevanti difficoltà respiratorie viene consigliato un monitoraggio “casalingo” della pO2 con misuratore elettronico ed un controllo TC del torace ad alta risoluzione a 6 e 12 mesi. In alcuni casi selezionati si associa terapia cortisonica o terapia anti fibrotica per prevenire la fibrosi polmonare, o ancora terapia riabilitativa.
Interessanti sono i risultati dei recenti studi sugli effetti tardivi del coronavirus sul cuore. Sembra che il virus possa causare aritmie cardiache per l’ elevato stato catecolaminergico dovuto alle citochine (IL-6, IL-1 ecc) o più semplicemente crisi di tachicardia parossistica. Interessanti sono anche i dati preliminari dei primi studi con risonanza magnetica cardiaca che documentano una infiammazione del miocardio (miocardite) in circa il 60% dei pazienti dopo due mesi dal COVID e tale percentuale si incrementa nei pazienti più giovani. Negli Stati Uniti uno studio RM cardiaco su 26 giovani atleti universitari post COVID con sintomi cardiaci lievi o asintomatici ha documentato la presenza di miocardite nel 15% dei soggetti. Tuttavia in questi pazienti una adeguata e tempestiva terapia farmacologica anti infiammatoria e/o anti aritmica permette di controllare i sintomi fino alla completa guarigione in poco tempo.
Anche il danno renale va preso in considerazione. Alcuni studi riportano nel post COVID la riduzione del volume di filtrazione glomerulare (indice di funzionalità renale) dopo 6 mesi dalla malattia nel 35% dei pazienti con normale funzionalità renale durante la fase acuta del COVID-19. Ciò sembra dovuto ad un danno diretto del virus a livello della microcircolazione renale. Anche in questo caso se ad una diagnosi precoce segue un precoce e mirato trattamento nefrologico si può ridurre il danno renale ed il conseguente deficit di funzionalità.
Pur essendo presente nelle feci dei pazienti anche dopo un mese dalla malattia il virus SARS-CoV2 non sembra avere effetti a lungo termine sull’apparato gastro enterico e sulle vie biliari.
Per quanto concerne la cute e gli annessi l’ effetto a lungo termine più frequente è la perdita dei capelli, riscontrata in circa il 20% dei pazienti guariti. Non è ben chiaro se essa sia dovuta ad azione diretta del virus sul microcircolo del cuoio capelluto o semplicemente correlata allo stress della malattia.
LO SCENARIO FUTURO
Attualmente, le strutture sanitarie sono chiamate al delicato compito di assistere i pazienti guariti dal COVID-19 acuto, ma con sequele a lungo termine. Per questa tipologia di pazienti , i medici hanno il ruolo chiave di riconoscere i nuovi sintomi oltre che seguire complicazioni organo-specifiche che si è sviluppato durante la malattia acuta.
È quindi evidente che l’assistenza ai pazienti con COVID-19 non si può concludere al momento della dimissione ospedaliera, poiché è necessaria una cura completa di questi pazienti con specifici follow up in un contesto ambulatoriale. E’ fondamentale per i sistemi sanitari ed ospedalieri per riconoscere la necessità di istituire percorsi per i malati Long COVID, dove gli specialisti di più discipline siano in grado di fornire terapie integrate.
La priorità delle cure di follow-up deve essere considerata per quelli ad alto rischio di sviluppare un Long COVID, in particolare coloro che hanno avuto una forma grave di COVID-19 con il ricorso alle terapie intensive, o tutti quei pazienti più suscettibili alle complicanze (ad esempio, gli anziani, quelli con comorbilità multiple d’organo, quelli post-trapianto e quelli con una storia di neoplasia in fase attiva o di severo stato di immunosoppressione) e quelli con maggiori sintomi persistenti.
Data la portata globale di questa pandemia, è evidente che le esigenze sanitarie per i pazienti con sequele di COVID-19 continueranno ad aumentare per il prossimo futuro. Ed anche su questo non dovremo farci trovare impreparati!