Il futuro può essere ragionevolmente ipotizzato, progettato e forse realizzato. Far derivare da una costruzione delle teorie, anche se intelligente, la descrizione di fatti non avvenuti appartiene a quella che Popper definì, nell’ambito del Razionalismo critico, “Falsificazionismo”, perché invertendo la direzione logica dell’induzione si perde irrimediabilmente il “controllo” delle conseguenze che scaturiscono dalle stesse ipotesi teoriche.
Così, non è descrivibile il futuro che ci aspetta ma si può ragionevolmente ipotizzare, -usando una categoria interpretativa-la possibilità che eventi passati e contemporanei rimangano eguali o presumibilmente modificati nell’avvenire. Nell’ambito della possibilità condizionata si possono preconizzare e perseguire identità socio- economiche e politiche intrinsecamente “imprecise”, non per questo incoerenti ai principi generali che regolano il buon vivere comune.
Non azzardandosi quindi a descrivere ciò che non c’è, è possibile studiare, almeno in parte- quanto si può in un articolo per sua natura sintetico- come si stia ampliando l’accelerazione di eventi negativi che l’intuizione empirica ha da tempo accreditato alla responsabilità di quello status di quella condizione socio economica evidenziata e definita col termine generico di Globalizzazione.
L’acronimo Covid-19 fa oggi parte del linguaggio planetario. L’Oxford english dictionary, che normalmente segnala con aggiornamenti trimestrali le nuove parole che entrano a far parte “ufficialmente” del patrimonio linguistico inglese, è già, straordinariamente, intervenuto due volte di più in un anno, al di fuori dei consueti aggiornamenti, per documentare il peso che nella lingua planetaria ha assunto la pandemia.
I termini scientifici sono in quanto tali di “nicchia”, e l’accelerazione degli aggiornamenti lessicali dimostra, con la velocità delle modificazioni, le speciali occasioni che segnano la società.
I curatori dell’Oxford dictionary hanno argomentato che fu la Organizzazione mondiale della Sanità a definire sinteticamente per la prima volta, l’11 febbraio del 2020, la “malattia da coronavirus 2019” come covid-19, definizione, come sappiamo che ha goduto di gran successo, seguita anche dalla diffusione di vecchie espressioni poco conosciute, dall’antimalarico hydroxycloroquine (idrossiclorochina) al corticosteroide dexamethasone, divenuti parte del linguaggio comune; così come espressioni già esistenti ma pressoché sconosciute, come self-isolation ( auto isolamento) in Europa e, con lo stesso significato, self-quarantine negli Stati Uniti. Nello stesso tempo hanno mutato valenza alcuni modi di dire: sheltering in place oggi significa sottoporsi ad un lungo isolamento sociale e elbow bump salutarsi in modo sanitariamente più sicuro (?) dandosi il gomito. Nuovi termini come covidiot, per descrivere con efficacia chi mette con i suoi comportamenti in pericolo l’altrui salute, o l’apparizione in video conferenze di sconosciuti – zoombombing– oppure maskne per indicare la sgradevole acne che disturba alcuni portatori di mascherina sono altri esempi di quanto abbia inciso il coronavirus nella vita quotidiana del mondo.
Gli studiosi definiscono “trappola della disponibilità” diversi fenomeni psichici, tra questi gli effetti che la diffusione massiccia, continua, ripetitiva (la copertura mediatica per intendersi) di un avvenimento provocano in gruppi sempre più allargati, sino a volte diventare patrimonio comune, trasformando la percezione delle possibilità in dati certi ed irrefutabili. Il fenomeno psichico diventa in questo modo sociale ed oggetto di analisi politica ed economica.
Oggi molti si sono convinti che sia la pandemia la causa della grande crisi economica che traversa il pianeta.
In realtà la crisi del 2020, tecnicamente diversa da quelle del 2008 e del 2011, è la esasperazione dell’aggravamento delle incongruenze finanziarie causate dalla quarantennale uniformità al pensiero unico liberista, basato sul monetarismo della scuola di Chicago, diffuso ed imposto nel mondo – possiamo dire in modo semplificato- da Ronald Reagan e da Margareth Thatcher. Oggi c’è la tendenza ad attribuire al virus l’esaurimento della spinta globalizzatrice, in alcuni aspetti fortemente innovativa. Il colpevole non è però il Covid-19, che ha accelerato la decomposizione che si rese evidente nel 2008/2011.
Il problema non è pronosticare quale futuro ci aspetti dopo il Covid, ma come sostituire il deficit da iperglobalizzazione, cioè la fase che si aprì con il crollo del comunismo. All’epoca si aprì alle imprese europee e statunitensi una fonte di lavoro qualificato a basso costo, quello dell’Europa dell’Est, facendo crescere il commercio ad un ritmo più veloce delle economie interne dei paesi e aprendo alla disseminazione di imprese in territori lontani dai confini per sostenere la competitività, mentre gli investimenti transnazionali, obbedendo a regole ed input diverse da quelle degli stati di origine, rafforzavano crisi sociali e sicurezze maturate nel corso di decenni. Anche prima del 1989 e degli anni ’90 la delocalizzazione in paesi “in via di sviluppo” extra europei era in qualche maniera usata, ma nell’ultimo decennio dello scorso secolo non trovava se non nell’Europa dell’est personale qualificato e, dopo l’ingresso nella organizzazione mondiale del Commercio (Wto) nel 2001 della Cina giunse il grande cambiamento. Il 2001 non segnalò soltanto l’adesione della Cina alle regole dell’economia globale, ingigantì anche nell’estremo oriente le filiere produttive prima quasi esclusivamente delocalizzate nell’Europa ex comunista, mentre materie prime e semilavorati attraversarono sempre in maggiore quantità ed incessante migliorata qualità le frontiere. Furono dapprima i macchinari occidentali ad arrivare in Cina, ma da Pechino in poco tempo non giunsero più solo scarpe da ginnastica e magliette, ma smartphone e sofisticati prodotti elettronici.
Da circa dieci anni, prima senza parlarne in pubblico, poi- anche per la non particolare eleganza di Donald Trump- sempre più apertamente e con inusuale violenza verbale, si è diffusa l’idea che la vulnerabilità del sistema poteva essere risolta da un ritorno al protezionismo.
La grande crisi che viviamo da oltre dieci anni, ben prima del Covid, ha eroso non soltanto il potere economico delle potenze globali, ivi compresa l’Unione Europea, ma per diretta conseguenza l’influenza politica delle potenze e dei singoli stati, con pesanti riflessi all’interno di questi.
L’Italia, che è un grande e ricco paese industriale, conosce direttamente l’equivoco democratico generato dal suo “populismo”. Altro che fiorire di aspirazioni tipiche della sinistra (le costole…) nella Lega e nel Movimento Cinque Stelle! Il delicato, e comunque intelligente, strabismo dell’onorevole D’Alema prova difficoltà a ricordare le ragioni del crollo comunista mondiale, lo stato affannato di mediocre sopravvivenza dell’ircocervo rappresentato da quella importante ragione della politica che fu il defunto PCI; il leader politico- che tale è rimasto nonostante l’assenza di incarichi rappresentativi- riesuma la necessità- una volta lasciata indifesa- di ricomporre un “partito della sinistra” che rivesta quel carattere di mediazione tra le istituzioni e i militanti che era il tratto tipico della democrazia rappresentativa italiana e che riguardava tutto il sistema , travolto dalla falsa rivoluzione alla quale non fu certamente estraneo l’ex PCI. È questa, quella italiana, una situazione in parte condivisa dalla crisi generale del modello socialdemocratico che in qualche modo si arrese al pensiero unico liberista; in parte tipicamente nazionale per la natura del comunismo italiano, oggi attentamente studiata da Biagio de Giovanni, dal quale traggo alcuni sintetici, brevi, forzatamente imprecisi spunti. A D’Alema sfugge, penso in pubblico piuttosto che nella sua mente, che il PCI visse a metà tra il rigore dei dettami della guerra fredda e la dipendenza dallo Stato guida, l’URSS, dalla sua costruzione ideale e filosofica in parte significativa dipendente dall’idealismo crociano e di Gentile. Le doppie origini si trasfusero nella alterità etico-politica impostata da Gramsci e tradotta con virtuale cinismo operativo da Togliatti. Un fenomeno oggi irripetibile. In Italia, come in buona parte del mondo occidentale è al momento vincente la destra, fortunatamente scomposta per la sua necessità di difendere i totem capitalistici che sopravvivono; aumenta di conseguenza lo stato di crisi sociale che dovrà essere superato, in tempi difficili, con nuove politiche che metteranno obbligatoriamente in discussione dogmi calcificati sul commercio, la tassazione, la mobilità sociale.
Nel 2016 il Wto certificò che erano state introdotte dai venti maggiori paesi industriali del mondo 1263 misure di protezione. Donald Trump non abitava ancora nella Casa Bianca quando i paesi industrializzati ed emergenti avevano iniziato a tutelarsi dal dumping provocato a loro dire dalla importazione di merci a prezzi più convenienti di quelli prodotti al loro interno. Il Covid è stato l’arma fatale perché ha alimentato un nuovo tipo di incertezza e le Banche centrali, ad iniziare dalla BCE e dalla Federal Reserve, hanno iniettato e continuano ad iniettare liquidità, nella speranza di provocare, con il calo degli interessi, un finanziamento celere e facilitato delle filiere produttive per procedere ad una deglobalizzazione che – anche per la necessità ovvia di realizzare politiche ambientali indispensabili ed urgenti- in nome della svolta green modernizzino i sistemi, massimizzino l’uso dell’Intelligenza Artificiale e rendano, con la robotica, più competitivi i sistemi, costretti a rinunciare al lavoro a basso costo in paesi che oramai sono divenuti competitori globali.
È evidente che se la robotica si limiterà a sostituire gli esseri umani senza contribuire alla produttività creando nuovo lavoro la crisi si allargherà.
La interdipendenza tra economia e politica ha messo in discussione, al di là dell’incultura democratica di Donald Trump, l’attuale assetto, zoppicante, dell’ordine mondiale che sovraintende agli equilibri. Si rendono necessarie creatività ed innovazione, oggi per la prima volta evocate anche da esponenti importanti della finanza e dell’industria mondiale.
Da molti è, credo vanamente, invocato Draghi alla guida di un governo efficace per l’Italia. Al momento l’ex governatore della BCE pensa ad altro.
L’ultima assemblea del gruppo dei trenta (il Group of the Thirty, think tank di consulenza internazionale economica e monetaria di assoluto rilievo) presieduta da Mario Draghi assieme all’ex governatore della Bank of India, Raghuram Rajan, ha presentato un rapporto allarmato sul precipizio su cui si affacciano, a causa della mancata solvibilità, una enorme parte di piccole e medie imprese, che hanno significativamente eroso il patrimonio a causa delle perdite. Appaiono necessarie- per mantenere la capacità del sistema finanziario di sostenere il credito, compensando le indesiderate ma ovviamente possibili conseguenze rappresentate dalla instabilità delle banche- urgenti politiche attive degli stati per innovare e rafforzare il patrimonio umano rappresentato dai lavoratori , rafforzare i tassi di rendimento sociale, dal cambiamento climatico, all’istruzione, alla sanità, investendo il debito in progetti di valore elevato che aggiornino tecnologie obsolete, aprano spazi produttivi in settori nuovi che garantiscano un elevato valore sociale.
Draghi è un super tecnico, maestro di cauto ma al contempo incisivo realismo e citando la necessità di modificare con “norme più snelle ed efficienti il diritto fallimentare”, proprio per prepararsi alla burrasca che sarà provocata in tutto il mondo dal vertiginoso aumento dei crediti deteriorati, non si nasconde certamente che non vi può essere crescita “endogena”, cioè dall’interno delle aziende se queste non sono messe in condizione di sviluppare nuove tecnologie garantendo benessere; che se la condizione necessaria è che siano i sistemi politici liberali a garantire lo sviluppo, questo non potrà accadere senza il rafforzamento dei bilanci dei singoli paesi attraverso nuove fiscalità che rendano obsolete le attuali mappe sulle quali è disegnata la diseguaglianza nel mondo.
Il Covid ha dimostrato al mondo quello che gli studiosi conoscono oramai da molto tempo; i crescenti indebitamenti degli Stati- i quali hanno raggiunto cifre record e non si annulleranno con un colpo di magica bacchetta ma peseranno per un lungo numero di anni- sono generati da una accresciuta diseguaglianza nella formazione della ricchezza, nella sua distribuzione e nella corrispettiva partecipazione agli obblighi fiscali.
I dati raccolti dal World inequality database (la Banca Mondiale delle diseguaglianze) analizzando 173 paesi che rappresentano il 97% della popolazione globale rafforzano quello che già sapevamo: la disparità è causata dalla crescita dei patrimoni dell’1% del pianeta. Non è una questione “etica”, una battaglia contro la ricchezza. Il fatto è che un paragone sistematico dimostra:
La pandemia ha esasperato le fratture di ingiustizia e costringe a individuare, nell’ambito delle possibilità condizionate, delle quali già parlammo all’inizio di questo articolo, soluzioni future per accrescere la trasparenza finanziaria, rendere più solida la democrazia, dare al maggior numero di persone accettabili soluzioni di vita.
Un ragionevole ottimismo è essenziale per condizionare al successo le possibilità future.
La peste nera ha un terribile impatto negativo nella sedentata memoria collettiva. Nella sua fase virulente si sviluppò nel 1346 e si concluse, non definitivamente, nel 1353, apparendo endemicamente ad intervalli di dieci-dodici anni per i successivi tre secoli.
Boccaccio descrisse la peste nel suo Decamerone, concentrandosi soprattutto sul degrado morale indotto dalla immagine drammatica della morte che contrastava quella del soggetto primo dell’opera, le “graziosissime donne”. L’amore non solo poetico divenne, in un profetico avveniristico esistenzialismo, il gavocciolo mortifero che legava il brutto presente ad un disperato futuro.
Eppure tra la fine della fase acuta della peste e l’inizio della società mercantile, che permetterà poi alla fine del Trecento, inizio del Quattrocento, il debutto del Rinascimento, passano pochi anni.
Fu in quel periodo che iniziò la casa-bottega degli artigiani o dei gestori del “banco”, che regolavano i prestiti. Uno spazio in cui l’uomo lavorava e viveva. Passarono secoli prima che la Rivoluzione industriale, le Rivoluzioni industriali localizzassero il lavoro in forma collettiva al di fuori cioè dei campi, delle botteghe artigianali delle piccole aziende dedite particolarmente alla conceria di pelli e del cuoio, alla coloreria dei tessuti.
Così come nel Rinascimento e nei secoli successivi la casa-bottega, la casa-studio professionale, disegnò urbanisticamente le città, ed altrettanto accadde nelle Rivoluzioni industriali, e da sempre era accaduto per le capitali dei regni e dei feudi a questi soggetti.
Il Covid-19 ha messo in atto per necessità lo smart Working; nonostante il maldestro tentativo di legare esclusivamente alla Rivoluzione informatica il beneplacito alla sua eseguibilità, che ha radici assai più profonde e che disegnerà nuove forme di urbanizzazione, di trasporto, di socialità che dovranno essere il soggetto di riflessioni e di proposte, soprattutto dei giovani perché sarà la loro vita e quella delle generazioni a venire che sperimenteranno, vivranno, sopporteranno o trarranno beneficio dei cambiamenti che si imporranno.
C’è una grande sete di informazioni e un profluvio di proposte sulla società che verrà e che in alcuni casi è data per scontata. Proposte che per lo più giungono da vivaci ed arzilli intellettuali nati nella prima metà dello scorso secolo o da cinquanta, sessantenni manager. Mi sembra un errore metodologico e logico gravido di conseguenze. Ad esclusione del Presidente del CNEL, il professor Treu, che ha preso iniziative di indubbio interesse su temi connessi allo sviluppo sociale- consultando i rappresentanti di quella società intermedia che prima Renzi in versione PD, poi la Lega ed il Movimento Cinque Stelle hanno cercato di abolire con il CNEL tramite Riforme costituzionali bocciate dai cittadini elettori, riforme poi riproposte con nuove leggi ad hoc di revisione costituzionale- non sembra che i temi della nuova società siano apertamente, pubblicamente discussi in Parlamento o nelle Confederazioni sindacali.
Spetta alle giovani generazioni assumere la guida del processo di rinnovamento, non dimenticando la interconnessione tra i tanti elementi che compongono più di ieri, proprio per la rivoluzione informatica, lo sviluppo futuro della società.
Non dimenticando che mantenere elevati standard di benessere, ampliare la fascia di chi è ammesso a goderne, pagando debiti e rimodulando i concetti stessi che regolano oggi i meccanismi economici e finanziari, dalla nozione di produttività alla fiscalità alla previdenza, significa cooperare in un mondo di uomini liberi governati democraticamente per uno sviluppo comune.
Le nostre Università sono tra le migliori al mondo, lo dimostrano i 30.000 “cervelli” che sono stati chiamati all’estero per mettere a frutto le loro capacità; c’è materiale umano in abbondanza per studiare e progettare la società interconnessa obbligatoriamente planetaria, perché l’agonia della liberalizzazione globalizzata non significa che la multidisciplinarietà non si possa e debba applicare in un sistema largo, mondiale. Ce lo dicono l’urgenza delle soluzioni ambientali, la necessaria scala internazionale delle produzioni, l’obbligato pararallelismo delle linee guida sul lavoro dipendente nello stesso mercato (ad esempio quello europeo che è il nostro mercato nazionale), il rispetto, maggiormente oggi e domani per la chiamata ad agire nel perdurare di una crisi economica di proporzioni inaudite, ma che sappiamo- covid docet- deve prioritariamente rispondere al soddisfacimento della spesa e della qualità sanitaria, dell’istruzione, della sicurezza con l’impegno di tutti, anche dei ricchi e dei super ricchi che pagano poco a fronte dell’entrate mentre chi vive di lavoro dipendente, la maggior parte, paga, assieme ai pensionati, per tutti, al di fuori di ogni reale progressività di imposizione.
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