Dieta e Alimentazione

L’obesità del terzo millennio

L’incremento di incidenza dell’obesità nel mondo, quello dei paesi fortemente industrializzati, preoccupa sempre di più sia gli operatori della sanità sia i governi, per le deleterie conseguenze sulla salute e di conseguenza sulla spesa sanitaria. Si parla di obesità del terzo millennio perché le previsioni sono preoccupanti, laddove secondo queste, nei prossimi decenni, ci ritroveremo tutti ad essere obesi. L’impegno della comunità scientifica è teso ad attuare progetti di prevenzione, mentre si registra un grande sforzo della ricerca per identificare il gene dell’obesità.

L’obesità è sempre esistita, ricordiamoci dell’Etruscus obesus e degli Egizi, dipinti magri sui sarcofagi ma, come sappiamo, in vita spesso obesi.

In questi ultimi decenni abbiamo avuto a disposizione cibo in eccesso e allo stesso tempo si è verificata una divaricazione a forbice: una minoranza che pratica attività fisica nel rispetto di un corretto stile di vita, e una maggioranza che ha rinunciato del tutto al movimento, sostituendolo con l’automobile, il cellulare, l’ascensore, il prêt-à-porter a tavola.

È difficile spiegarsi come gli Etruschi facessero poco movimento e come potessero ingrassare con un’alimentazione ricca di carboidrati, pesce e cacciagione ma povera di grassi. Un’ipotesi interessante è quella secondo la quale, nel passato, l’uomo sia sopravvissuto perché, facendo fronte alla fame e alle carestie, ha sviluppato un gene cosiddetto “economico” (Bosello). Così, in contesti via via più favorevoli, giunti sino all’affermarsi di uno stile di vita sedentario, egli avrebbe sviluppato una propensione all’obesità, che non abbiamo visto ben rappresentata nelle figure dei sarcofagi egizi. Giulia Villoresi ha raccontato ai lettori del Venerdì de La Repubblica, nel numero del 31 dicembre 2020, di aver letto su Obesity una nuova ipotesi sostenuta da ricercatori dell’Università del Colorado a proposito delle veneri “steatopigie” (che in greco significa “dalle grasse natiche”), statuine paleolitiche che rappresentano la dea madre ritratta con gli emblemi della fertilità: corporatura formosa e attributi sessuali pronunciati. Il nuovo studio aggiunge una chiave di lettura connessa alle oscillazioni climatiche dell’Era glaciale. Infatti, le statuine prodotte in prossimità dei ghiacciai erano più obese poiché ipernutrite in vista delle crisi alimentari delle fasi di gelo.

Oggi gli studi sulla genesi dell’eccesso ponderale hanno dimostrato l’importanza della componente genetica, anche se i fattori responsabili non sono stati identificati. Non vorrei che questi geni fossero chiamati in causa con troppa facilità, ossia non mi sembra necessario scomodare un gene che rischia di far passare in seconda linea gli errori dietetici e quelli comportamentali, malgrado i quali è stato registrato un allungamento della durata di vita.

D’altra parte sembra ragionevole che un allungamento della durata di vita abbia comportato anche una maggiore incidenza delle malattie cronico- degenerative, cardiocircolatorie e tumorali, con l’aggravante del sovrappeso e dell’obesità. Perché poi non tener conto contestualmente dei fattori genetici delle stesse malattie? Se diamo soverchia importanza al fattore genetico rischiamo di risultare sostanzialmente impotenti nella lotta all’obesità. Il fattore genetico c’è sempre stato, ma i fattori ambientali possono ben controllarlo. Facciamo l’esempio della malattia celiaca che è condizionata da precisi ed identificati fattori genetici. Il bambino che nasce con questi fattori cosa può fare per evitare di ammalarsi?

Sappiamo che se la farina di frumento è introdotta nello svezzamento più tardo, l’intestino sarà più maturo e quindi più preparato ad affrontare il glutine e sarà, forse, più mitigata l’espressione clinica della malattia. É risaputo però che in tempi di carestia la celiachia sembrava scomparsa. Ma non è stato mai dimostrato che la malattia non sarebbe insorta affatto e oggi la gran maggioranza dei celiaci presenta una fenomenologia clinica minima o nulla per molti anni, indipendentemente dalla precocità dello svezzamento. Ciò non è sufficiente ad evitare che il celiaco debba comunque rispettare la dieta senza glutine per impedire la slatentizzazione della malattia o andare incontro a complicanze severe nel corso degli anni.

Le ricerche dimostrano che nell’adulto la malattia è presente nel cinque per mille della popolazione sana, mentre negli ultrasettantenni asintomatici, e quindi a dieta libera, la si riscontra solo nell’uno per mille. Non è difficile dedurre che l’aspettativa di vita del soggetto a dieta libera è inferiore a quella di chi osserva una dieta rigida.

Un ricercatore italiano sostiene che i celiaci di oggi sono discendenti di quelle popolazioni mediorientali che non si sono adattate al cambiamento della qualità del frumento, avvenuto quando l’uomo ha scoperto la possibilità di far nascere una spiga più ricca di chicchi, un grano “industriale” che poteva soddisfare la fame di un maggior numero di persone.

Quanti anni sono passati senza che il gene cambiasse con l’adattamento al grano industriale?

Non è diverso il ragionamento possibile per l’obesità. Siamo consapevoli che di questo passo l’obesità riguarderà tutta la popolazione, non a caso si parla di “globesity”.

È inimmaginabile che si stia creando un gene nel breve termine, il gene c’è sempre stato. Mentre è vero che maggior disponibilità di cibo, sedentarietà e modificazioni del comportamento alimentare sono i fattori e co-fattori etiopatogenetici di questa malattia. Ed è altrettanto vero che questi fattori sono modificabili, anche se con difficoltà, anche se sarà necessario molto tempo. L’obesità è prevenibile e la predisposizione genetica è sufficiente a giustificare il dilagare epidemico dell’obesità se non si presta attenzione allo stile di vita. Allora impegniamoci seriamente nella prevenzione, anche se sappiamo che noi medici dovremo prima di tutto correggerci, combattendo la nostra, assai scarsa, consapevolezza della gravità del problema, la nostra riluttanza ad impegnarci nel trattamento dietetico e farmacologico, la nostra impotenza nei confronti dei truffatori, la nostra difficoltà a confrontarci con i sociologi e con gli psicologi. Si apre così per i medici una fase epocale di sfida, passione e crescita culturale di grande importanza. È stato intelligentemente spiegato che “dietaè parola che viene dal greco dìaita, che significa stile di vita, ma si può facilmente intuire quanto sia difficile per i medici spiegare ai pazienti cosa vuol dire stile di vita e come attuarlo. Bisogna conquistare la confidenza dei pazienti, conoscere i problemi personali, familiari e lavorativi, scardinare con delicatezza le robuste difese entro le quali nascondono il proprio disagio. Instaurare un dialogo costruttivo e superare la facile via della colpabilizzazione. Una difficoltà accresciuta dall’aggressività del business delle diete dimagranti e dei destabilizzanti messaggi dei media, creando un’altra cultura facilmente identificabile come quella vera e santa. Saremo costretti anche noi medici ad indire concorsi a premi per incoraggiare i pazienti a camminare, mangiare ragionevolmente, definirsi consapevolmente rispetto a se stessi e agli altri.

Dobbiamo far sapere e far capire a tutti che il difetto o l’eccesso di assunzione del cibo è un segnale del nostro scompenso emotivo. Il comportamento del cuore, dei polmoni e dell’apparato digerente, fame e sazietà sono totalmente dipendenti dalle emozioni e una dieta che non tenga conto di ciò è doppiamente dannosa, sia per il fisico che per la psiche. Dobbiamo accettare l’indispensabilità di un trattamento integrato da parte di medici competenti e intelligenti, che sappiano porgere le cure oltre che saperle prescrivere. I medici hanno di fronte persone che stanno male dentro e che, per evitare la via della sofferenza mentale, hanno trovato un sistema di compenso che va sostituito con un altro sistema. Da più parti si comincia a contestare una prevenzione fatta di divieti, digrammi e di milligrammi. Le diete interpretate come regimi rigorosi rischiano il fallimento: finalizzate a perdere peso rapidamente fanno successivamente ingrassare ed il grasso in più che si realizza dopo la dieta è stato interpretato da qualcuno come un equipaggiamento per l’incombente possibile carestia (appunto, il “gene economico”).

Obesità del terzo millennio

Allora il discorso della prevenzione primaria è un altro. Cominciamo a destrutturare la grande, egemonica ed ossessiva informazione dei media. È ragionevole l’opinione di chi pensa che l’obesità dilagante sia la conseguenza dell’informazione alimentare. L’educazione alimentare destinata ai bambini è fondamentale, ma non è fatta di proibizioni, di bilancette, di calorie, ma di modelli adulti, capaci di trasmettere intelligentemente la cultura dell’alimentazione. Non è lassismo deleterio lasciare che i bambini mangino ciò che gli piace e non ciò che fa bene, perché non soltanto quanto imposto dai genitori ma anche questo piacere fa bene, sempre che venga condiviso con i familiari che sanno come viverlo ragionevolmente, semplicemente, nella certezza di essere poi imitati. Questo piacere è fornito dal gusto e dalla conoscenza di ciò che il bambino porterà alla bocca, la memoria farà il resto.

Non c’è memoria più salda della felice scoperta dei sapori nell’infanzia, come testimonia la ricerca, e nel corso della vita bisogna rinnovare quei ricordi per rinsaldare la propria identità e la propria aderenza all’ambiente. Mangiare può essere considerato un divertimento che deve restare tale senza diventare una dipendenza: la sana alimentazione proposta malamente e a soggetti di precaria struttura psicologica è il fattore patogenetico della cosiddetta ortoressia, una sorta di dipendenza coatta dall’alimentazione salutare che comprende solo i cibi che fanno bene, in mancanza dei quali non si mangia!

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