Il dolore, secondo la definizione della IASP (International Association for the Study of Pain) e dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), è un esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata (o simile a quella associata) ad un danno tissutale potenziale o in atto.
A partire da questa definizione, risulta astratto e quantomeno limitativo considerare il dolore solo puramente fisico. Esso, infatti, abbraccia una molteplicità di componenti tra cui quelle di ordine psicologico-emotivo hanno un peso variabile da persona a persona.
Le tre dimensioni del dolore
Il dolore, nella nostra cultura, va dunque affrontato tenendo presenti tre dimensioni fondamentali.
La prima, di tipo sensitivo, porta a valutare grazie agli studi sul dolore finora attuati, che esistono importanti differenze nella percezione del dolore fra uomini e donne; nella maggior parte dei casi, specie in condizioni patologiche croniche, sono queste ultime a denunciare una sintomatologia di grado più elevato e di maggior durata. Le ragioni vanno ricercate nelle diversità anatomiche, ormonali e fisiologiche che caratterizzano i due sessi. Basti pensare al dolore correlato alla gravidanza, al ciclo mestruale, alla fibromi algia, alle emicranie quotidiane, alla maggiore longevità della donna che la espone a malattie degenerative e patologie croniche, per comprendere come questo sintomo possa trasformarsi in un vero e proprio dramma per chi lo vive.
Il dolore fin dal suo apparire non va sottovalutato: è il primo campanello di allarme che il corpo invia, una sorta di meccanismo protettivo che può e deve contribuire a sviluppare attenzione al mantenimento della salute. Rispondere con particolare sensibilità al dolore, come avviene più spesso nel sesso femminile, non diventa quindi una debolezza bensì una forza adattattiva, un monito che avvisa sulla necessità di fare qualcosa per evitare che un semplice dolore diventi sintomo prolungato e lesivo del benessere della persona.
La seconda dimensione da considerare è di tipo emotivo. Nella donna il dolore è vissuto più intensamente rispetto all’uomo poiché esiste un rapporto molto stretto con lo stato più intimo, condizionato dal fatto che essa è spesso chiamata dalla vita a occuparsi anche del dolore degli altri, ad accettare situazioni precostituite che l’hanno portata ad affrontare, se non a subire, il dolore e a riconoscerlo. È quindi più probabile che nella donna al dolore fisico si aggiunga un dolore mentale e dell’anima che le fa vivere questo stato con maggiore empatia.
E, infine, una terza dimensione di tipo sociale, che da un lato pone attenzione all’evidenza che le donne non ricevono trattamenti adeguati alle proprie caratteristiche di genere, e dall’altro fa emergere la necessità di riconoscere come il dolore possa generare uno stato fisico e psicologico tale da essere definito una malattia a tutti gli effetti, con condizioni de depressione e di distacco dalla vita quotidiana.
L’impegno del medico nella lotta al dolore
Forti delle ripercussioni che il dolore può avere sul naturale andamento e sulla qualità della vita, diventa un impegno dominante combattere il dolore “inutile”. I mezzi di cui oggi disponiamo per alleviare la sofferenza innanzitutto fisica sono molteplici, ma essi devono tener conto del tipo di dolore di fronte al quale ci troviamo, dolore che deve essere comunque lenito in qualunque tipo di malattia, senza ritardo, senza pausa e senza tregua.
Ogni medico nel corso della sua vita professionale si confronta continuamente con il dolore e lo percepisce come un’esperienza che contraddistingue la condizione di fragilità dell’esistenza dell’uomo, modificando la sua qualità di vita e causandogli sofferenza e angoscia. Quella del dolore è un’esperienza professionale nota a tutti i medici, ma estremamente difficile da definire, come tutte le esperienze che hanno una forte componente personale emotiva e spirituale, oltre che fisica e razionale.
La storia del dolore comincia con l’essere umano che ancora non è riuscito a dare risposte certe e definitive a tre pesanti interrogativi: perché esiste il dolore? come interpretare il dolore? come sconfiggere il dolore?
Una risposta può invece essere data, quanto meno da un punto di vista medico, alla domanda cos’è il dolore? integrando la definizione in epigrafe con elementi di fisiopatologia: il dolore è un fenomeno evocato dall’integrazione nei circuiti neuronali della coscienza di informazioni nocicettive ed è una sensazione personale spiacevole associata a un danno tissutale attuale o potenziale o descritta in termini di tale danno.
Per il medico il dolore non è solo amorevole compassione ma è anche un’opportunità: è l’opportunità di rinsaldare il suo rapporto con il malato e di rinforzare l’alleanza con chi soffre, nel rispetto e nel segno del giuramento d’Ippocrate.
Il malato, da parte sua, vive l’esperienza dolorosa con trepidazione e disperazione, ma anche con speranza di condivisione, di comprensione e di interventi efficaci. Egli ha il diritto di non soffrire, consapevole che il dolore non va necessariamente sopportato e che gran parte della sofferenza può essere alleviata intervenendo con la giusta terapia.
Il dolore, sia esso acuto o cronico e indipendentemente dalla sua causa, è un sintomo che rappresenta un’emergenza sanitaria di dimensioni sempre crescenti e meritevole di sempre maggiore attenzione da parte delle autorità sanitarie e della comunità medica. Si tratta di un sintomo che, a prescindere dagli aspetti clinici, pur sempre dominanti, ha implicazioni non meno rilevanti sul piano socio-economico.
Il medico è consapevole che il dolore è un’avventura spiacevole, sensoriale ed emotiva, associata a un danno di cui soffre e al quale partecipa l’organismo nella sua interezza. Pur avendo aspetti positivi, in quanto segnale di allarme e pericolo che concorre alla protezione dell’organismo, nei fatti è ritenuto una sensazione da combattere giacché causa di sofferenza. Infatti, quando il dolore è persistente perde la sua funzione di utilità biologica di difesa e provoca effetti distruttivi e disgreganti sull’integrità psico-fisica del paziente.
Il dolore può essere sintomo di malattie o essere una malattia in sé. Nel primo caso costituisce un segnale di allarme fisiologico utile, nel secondo non ha finalità e spesso rappresenta il punto di partenza per un’altra patologia che coinvolge il sistema percettivo corticale degli stimoli nocicettivi, con ripercussioni sul piano psicologico.
Che il dolore, sia esso acuto o cronico, debba essere lenito e combattuto è convincimento giustamente diffuso e atavico, come è dimostrato dal fatto che la lotta al dolore, e non solo fisico, è antichissima e probabilmente coetanea rispetto al genere umano.
Il principio etico ben noto secondo il quale divinum est opus sedare dolorem è sempre valido e attuale, ancorché oggi efficacemente perseguibile grazie a farmaci antalgici e anti-infiammatori sempre più potenti e tollerati.
L’essenza delle soluzioni date al problema dolore è stata differente nei secoli e ha risentito, e risente, delle influenze religiose, cristiane e non.
La religione cristiana è quella che più di altre ha affrontato il problema del dolore, differenziandolo dal concetto di sofferenza, nel quale peraltro si integra.
La storia naturale della maggior parte delle malattie algogene è caratterizzata dall’infiammazione della quale il dolore è una componente clinica cruciale. Pertanto, l’impiego dei farmaci antalgici e anti-infiammatori trova un campo applicativo privilegiato e molto vasto.
Il dolore è il risultato della stimolazione multifattoriale dei nocicettori, della trasmissione degli impulsi conseguenti, del loro arrivo nel sistema nervoso centrale e della loro elaborazione a tale livello. Sono queste le basi fisiopatologiche su cui fondano il vissuto personale dell’esperienza dolorosa e l’adozione di misure comportamentali di tipo protettivo e in grado di attenuare la sensazione spiacevole.
Peculiarità del dolore
Il dolore ha molte peculiarità:
- è elemento utile per la diagnostica differenziale;
- consente di valutare l’attività di malattia;
- costituisce un importante parametro di giudizio dell’efficacia dei farmaci impiegati;
- è un parametro predittivo dell’outcome di malattia;
- è un dato di riferimento per una più precisa valutazione medico-legale della condizione morbosa;
- contribuisce a fare accertare uno stato di guarigione o di inattività clinica della malattia alla quale è associato;
- il dolore e il suo andamento possono essere misurati mediante scale di valutazione, la più semplice delle quali è la scala analogica visiva che assegna un valore pari a 0 all’assenza di dolore e il valore di 10 al più forte dolore immaginabile.
Attualmente il problema del dolore ha maggiori possibilità di soluzione rispetto al passato se si attua un approccio multidisciplinare che prevede anche, ma non solo, l’impiego di farmaci.
Trattamento del dolore in tre fasi
La strategia per il trattamento del dolore passa attraverso tre fasi principali.
- La fase della diagnosi. Ora siamo in grado di capire i meccanismi di comparsa, trasmissione ed elaborazione del dolore perché disponiamo di strumenti diagnostici avanzati e complessi. Il medico di oggi è formato per essere empatico con il paziente sofferente e per orientarsi più facilmente e prontamente rispetto all’esatta diagnosi.
- La fase del trattamento. Si utilizzano farmaci di vario tipo e potenza, in grado di svolgere un’attività di controllo sui meccanismi che generano il dolore. La tecnologia ci ha fornito strumenti di cura potenti e affidabili. L’armamentario farmacologico a disposizione dei medici include anche gli oppioidi, nei confronti dei quali devono cadere quelle barriere ideologiche, presenti ancora anche tra alcuni componenti della comunità medica, che finora ne hanno impedito la necessaria diffusione e l’impiego appropriato.
- La fase della gestione. La persona sofferente viene seguita sia per quanto riguarda il trattamento cronico, sia per intervenire sui danni che il dolore cronico ha generato nella singola persona condizionandone negativamente la vita. Non esiste la guarigione miracolosa, ma la “cura” e come tale esiste una relazione di aiuto continuo tra il medico, la persona sofferente e i suoi congiunti.
Trovano ancora resistenza i tentativi di abbattere le barriere culturali che da secoli ostacolano il trattamento del dolore mediante l’impiego dei farmaci oppiacei, così come è altrettanto difficile educare i medici ad un impiego motivato e informato dei farmaci antidolorifici e delle tecniche analgesiche più potenti.
Non serve dire basta a un’antica inerzia per vedere aumentare, senza pregiudizi, l’impiego dei farmaci necessari, ivi compresi quelli erroneamente più demonizzati e che tali devono continuare a essere se impiegati inappropriatamente. Bisogna rimuovere tale inerzia e promuovere un percorso clinico virtuoso che da una parte rassicuri il medico prescrittore circa l’appropriatezza della sua prescrizione e dall’altra metta in condizione il paziente di essere consapevole della modestia dei pericoli cui potrebbe andare incontro assumendo i farmaci rispetto un beneficio terapeutico certo, secondo un rapporto beneficio-rischio favorevole.
Il malato, com’è naturale, vive l’esperienza dolorosa con trepidazione e disperazione, ma anche con speranza di condivisione, di comprensione e di interventi efficaci. Egli ha il diritto di non soffrire e deve essere consapevole che il dolore non va necessariamente sopportato giacché la sua sofferenza può essere alleviata intervenendo con la giusta terapia.
Il diritto del malato a non soffrire: legge n. 38 del 15 marzo 2010
Il diritto del malato a non soffrire deve essere riconosciuto e rispettato, sempre e ovunque, e occorre promuovere iniziative che sensibilizzino le autorità, i politici, la collettività e gli stessi operatori sanitari nei confronti del dolore, dando loro informazioni utili per attuare interventi efficaci.
Non è più tempo di considerare il dolore come un semplice sintomo, ma gli deve essere conferito il rango di malattia; ed è questo uno dei criteri ispiratori, forse il più importante e innovativo, della legge del 15 marzo 2010, n. 38, “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alle terapie del dolore”.
Questa legge rappresenta una svolta nella cultura della lotta contro il dolore e sancisce il diritto alla terapia facilitando le procedure prescrittive dei farmaci più efficaci, quali gli oppioidi. Essa tutela il diritto del cittadino a non soffrire, difende la dignità e l’autonomia del malato, salvaguarda la qualità della vita e garantisce sostegno sanitario, sociale e assistenziale all’individuo che soffre e ai suoi congiunti.
Esistono dolori che cessano quando è possibile curare bene la causa che li provoca e altri in cui le molteplici modalità terapeutiche antidolorifiche non arrivano o non possono eliminare la causa del dolore ma che, comunque, si prefiggono di ridurre più meno marcatamente.
Ancora molte energie devono essere profuse e molti sforzi devono essere fatti perché non subiscano rallentamenti e non trovino ostacoli i tentativi di combattere il dolore con i mezzi disponibili. Sebbene il dolore faccia parte del ciclo naturale della vita, non deve diventare esperienza mortificante a avvilente per la dignità di ogni essere umano, come ancora oggi, a volte, avviene.
In una società materialistica ed edonistica, incapace di orientare verso ideali e valori, occorre promuovere una cultura della solidarietà verso chi soffre. L’esperienza di chi ha dolore deve rappresentare un’opportunità per chi intende incamminarsi lungo la via della solidarietà con l’obiettivo di promuovere e realizzare momenti di umana partecipazione.