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Le facoltà di medicina ed i medici in tempo di Covid

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L’esperienza brutale di questa primavera che ci auguriamo non si ripeta ci dà lo spunto per molte riflessioni. Numerosi medici ed infermieri hanno dato la vita e molti di più si sono ammalati, non sappiamo ancora con quali danni permanenti, per assistere i pazienti affetti da Covid.

Questo stato di cose è stato causato da una incompleta conoscenza sulle capacità infettive del virus ma molto di più da una assoluta mancanza o insufficienza dei mezzi di protezione individuale. Su questo punto il rimedio non è stato difficile. Difficile per le nostre coscienze è accettare invece che nella fase più acuta della pandemia, a fronte di una insufficienza di letti di rianimazione, i malati venivano selezionati sulla base della probabilità di guarigione e i più gravi lasciati senza cure adeguate.

Ricordo che molti anni fa in attesa di una coincidenza, nell’aeroporto di Francoforte capitai seduto vicino al vice ministro della salute dell’Unione Sovietica. Mi spiegò che loro non producevano farmaci per la cura dell’emofilia, cosa che invece accadeva in Gran Bretagna dove gli emofilici vivevano di più, facevano figli e richiedevano una spesa crescente in farmaci. Noi preferiamo –disse- costruire centri di rianimazione dove ricoverare giovani che possono recuperare. Un ragionamento non molto dissimile viene considerato normale in molti stati del nord Europa.

Qui non si discute di accanimento terapeutico, e alle nostre coscienze, forse per la formazione cattolica che abbiamo, queste discriminazioni pur comprensibili ci ripugnano. Noi avevamo nella passata primavera un numero di posti letti di rianimazione che era un quarto di quelli della Germania a fronte di una popolazione non di molto superiore. Che gli ospedali si possano costruire in pochi giorni lo abbiamo visto fare in Cina. Le apparecchiature per far funzionare un letto di rianimazione possono essere reperite senza grandi difficoltà. Ma queste apparecchiature non agiscono in modo autonomo; hanno bisogno di medici rianimatori e di personale infermieristico dedicato che richiede una lunga formazione.

Questo stato di cose mette in luce alcuni aspetti critici della formazione medica e in senso più lato sanitaria. Il nostro sistema accademico è stato costruito sull’esempio di quanto veniva realizzato in Germania ed Austria, nazioni nell’ottocento e nella prima metà dello scorso secolo all’avanguardia nella formazione medica. Più recentemente su quell’impianto si sono introdotti con le leggi n.382 del 1980 e n.240 del 2010 elementi tratti dal mondo anglosassone snaturando la primitiva organizzazione, senza però una modifica radicale dello stato delle cose.

Uno degli esempi che posso fare è il numero chiuso per le inscrizioni a medicina e il collo di bottiglia delle scuole di specializzazione. Calcolare quanti medici serviranno in futuro in Italia non è una cosa corretta perché esiste un mercato almeno europeo. E comunque i conti non sono stati fatti bene perché si è passatati dalla pletora alla carenza.

Il problema più grave sta nel collo di bottiglia dei contratti messi a disposizione delle scuole di specializzazione che sono eccessivamente ridotti rispetto al numero dei laureati. Oggi senza una specializzazione non si può svolgere neanche il ruolo del medico di famiglia.

Ci sono tanti altri argomenti da dibattere, quali una riforma delle facoltà di Medicina e delle scuole di specializzazione che non può riguardare solo i volumi di professionisti prodotti ma anche la loro qualità.

C’è il problema che alcune specializzazioni (chirurgia, ostetricia, ortopedia, neurochirurgia) non sono appetibili per il pericolo di litigi legali che da noi e da pochissime altre nazioni hanno un aspetto anche penale ed infine bisogna rispondere ad una domanda che credo tutti ci siamo posti in questo periodo vedendo intervenire in televisione illustri virologi ed infettivologi italiani che lavorano all’estero. E questa condizione esiste non solo per i medici ma anche in molte altre branche della scienza dove la fuga di cervelli all’estero non è compensata dall’arrivo di altrettanti scienziati stranieri da noi.

Non è soltanto una questione di stipendi, è soprattutto una questione di finanziamenti della ricerca che vede ad esempio l’Italia ricevere un terzo delle somme stanziate dalla Finlandia in proporzione al PIL prodotto. Uno che ritiene di essere un buon pilota vuol gareggiare per vincere e non si accontenta di una Alfa Tauri (e purtroppo adesso anche di una Ferrari) ma vuole una Mercedes o almeno una Red Bull. Tra le tante cose da cambiare questa è una che dovrebbe avere la priorità.






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