Le vitamine sono prodotte indispensabili per la vita e per l’accrescimento corporeo. Esse devono essere assunte in quantità adeguata giacché la loro carenza causa o favorisce l’insorgenza di malattie. La vitamina D, detta in passato vitamina antirachitica, svolge numerose attività sullo scheletro e su strutture, organi e sistemi extra-scheletrici. In quest’ultimo ambito risultano di grande rilevanza, specie in epoca pandemica, i ben noti effetti immunomodulatori e anti-replicativi su virus e batteri.
In assenza o carenza di vitamina D si verifica una profonda alterazione del metabolismo minerale con gravi conseguenze sul tessuto osseo ancora in formazione e un progressivo deterioramento di quello già normalmente calcificato. Ciò determina una tipica manifestazione da carenza, il rachitismo, che si osserva soprattutto nei primi anni di vita. Il rachitismo è caratterizzato da alterazione dei processi di calcificazione delle ossa lunghe che diventano meno resistenti; quelle degli arti inferiori, non sopportando il carico, si incurvano e si deformano in vario modo.
Nell’adulto la carenza di vitamina D causa l’osteomalacia, condizione nella quale le alterazioni ossee sono analoghe a quelle del rachitismo ma, essendo le ossa già formate, si verificano altri tipi di anomalie, come le pseudo fratture di Looser-Milkman. Si tratta di fratture multiple, talvolta simmetriche, generalmente localizzate nel bacino e negli arti inferiori. Tali fratture corrispondono a zone di tessuto osseo demineralizzato e si evidenziano radiograficamente come linee chiare trasversali.
La vitamina D fa parte, insieme alle vitamine A, E e K delle vitamine liposolubili che, a differenza delle vitamine idrosolubili (come le vitamine del gruppo B, la vitamina C e l’acido folico), si accumulano nell’organismo e vengono rilasciate dai depositi adiposi a seconda dei bisogni.
La vitamina D ha una struttura molecolare molto simile a quella del colesterolo, molecola dalla quale deriva al pari degli ormoni steroidei (cortisolo, estradiolo, progesterone, aldosterone, testosterone).
In natura la vitamina D si trova essenzialmente in due forme principali.
In considerazione della scarsa presenza di vitamina D3 negli alimenti, la sua disponibilità è fortemente dipendente dalla biosintesi cutanea attraverso l’esposizione alla luce solare. I raggi ultravioletti B, infatti, inducono la trasformazione del 7-deidrocolesterolo, presente in elevate quantità nella cute, in pre-vitamina D3 che, in virtù del calore corporeo, viene trasformata in vitamina D3 e immagazzinata nel tessuto adiposo.
Per diventare attiva la vitamina D3 deve essere sottoposta a due tappe metaboliche. La prima avviene nel fegato dove il colecalciferolo viene idrossilato in posizione 25 e trasformato in 25(OH)-colecalciferolo o calcifediolo; la seconda, in grado di produrre la forma attiva della vitamina D, avviene nel rene sotto stretto controllo endocrino-metabolico attuato, essenzialmente, dal paratormone e dal fosfato. Nel rene l’enzima 1-alfa-idrossilasi aggiunge un gruppo ossidrile al calcifediolo e lo trasforma in 1,25(OH)-colecalciferolo o calcitriolo. La vitamina D nella sua forma idrossilata in posizione 1 e 25 (detta anche calcitriolo) può essere considerata un vero ormone steroideo che, tra l’altro, aumenta l’assorbimento di calcio e fosfato nell’intestino, regola il trasporto del calcio nello scheletro, favorisce la normale formazione e mineralizzazione delle ossa.
Il calcitriolo, che rappresenta la forma metabolicamente attiva della vitamina D, ha una un’azione biologica molto potente ed è in grado di stimolare tutti i recettori della vitamina D presenti in numerose cellule bersaglio.
L’ipovitaminosi D è una condizione molto frequente in tutto il mondo. Bassi livelli di vitamina D stimolano la produzione di paratormone e possono causare iperparatiroidismo a seguito del quale aumentano l’assorbimento intestinale, la mobilizzazione nell’osso e la ritenzione renale di calcio, compromettendo la mineralizzazione ossea.
L’impossibilità di definire una soglia universale di normalità dei livelli di vitamina D è da ascrivere all’ampia variabilità dei metodi impiegati per la sua determinazione. In linea di principio generale il livello di vitamina D non dovrebbe essere inferiore a 30 ng/mL, anche se sarebbero auspicabili valori superiori a 40 ng/mL in situazioni particolari tra cui l’attuale stato pandemico.
I livelli di vitamina D possono diminuire principalmente per minore riduzione di sintesi da parte della cute a causa dell’età, per l’impiego di creme per la pelle con filtri solari ad ampio spettro, per scarsa esposizione alla luce solare, per eccesso di pigmentazione cutanea, per sequestrazione nel tessuto adiposo dei soggetti in eccesso di peso; e ancora, per patologie intestinali che compromettono l’uptake di vitamina D dall’intestino o l’impiego di farmaci, come gli antiepilettici, che interferiscono con il suo metabolismo.
Al fine di combattere l’ipovitaminosi D, in alcuni Paesi sono previsti appositi programmi di supplementazione che prevedono la somministrazione della vitamina in occasione di campagne vaccinali e nei soggetti istituzionalizzati.
In Italia il numero di soggetti con carenza di vitamina D è molto elevato (oltre 70% della popolazione), specie tra la popolazione anziana e tra le donne in menopausa.
La principale causa del deficit è da attribuire al prolungato soggiorno entro le mura domestiche dei soggetti anziani e a un’insufficiente esposizione solare.
La quantità di vitamina D prodotta in seguito a esposizione solare dipende dalle condizioni meteorologiche, dall’estensione della superficie esposta e dall’area geografica in cui si vive. Il sole è in grado di assicurare tutto l’anno il fabbisogno vitaminico al di sotto di 35° di latitudine. A latitudini superiori (Catania 37°, Roma 41°, Milano 45°) diminuiscono i giorni dell’anno durante i quali la radiazione solare è tale da assicurare la produzione vitaminica necessaria.
In ambito muscolo-scheletrico, il più rilevante campo applicativo della vitamina D riguarda l’osteoporosi, sia in prevenzione sia in associazione ai farmaci anti-osteoporosi, dei quali ottimizza gli effetti sulla massa ossea e l’efficacia anti-fratturativa.
In prevenzione primaria, l’apporto delle necessarie quantità di vitamina D integra le misure riguardanti lo stile di vita, tra cui un regime dietetico ricco di calcio e proteine, l’attività fisica regolare, l’astensione dal fumo e dagli alcoolici e la moderazione nel bere il caffè.
Un’adeguata concentrazione plasmatica di vitamina D si è dimostrata idonea a diminuire il numero di cadute nella popolazione anziana, con conseguente riduzione del rischio di frattura. Questa specifica azione è legata al miglioramento della miopatia prossimale (nota anche come sarcopenia) degli arti inferiori, tipicamente associata a livelli insufficienti o inadeguati di vitamina D.
Il deficit di vitamina D svolge un ruolo determinante per il determinismo dell’osteoporosi riducendo l’assorbimento intestinale di calcio. Per tale motivo prima di avviare la terapia con i farmaci per l’osteoporosi e durante il loro impiego è raccomandato un adeguato apporto di vitamina D, ricorrendo, ove dieta ed esposizione solari siano inadeguati, a integrazione vitaminica. È stato inoltre documentato che la carenza di vitamina D può vanificare in gran parte l’effetto dei farmaci comunemente impiegati per il trattamento dell’osteoporosi.
La vitamina D, tuttavia, oltre alle importanti azioni scheletriche, svolge anche molteplici funzioni extra-scheletriche altrettanto importanti.
Le azioni extra-scheletriche si verificano perché molti organi e tessuti, e non soltanto l’osso, possiedono recettori specifici per la vitamina D. Pertanto tale vitamina, oltre alle ben note attività favorevoli sull’osso e sulla muscolatura scheletrica, esercita azioni benefiche anche sul muscolo e sulla sua attività, sul rinnovamento e sulla funzione delle cellule, sulla modulazione del sistema immunitario, sulla funzione pancreatica e sui livelli insulinici, sulla regolazione cardiovascolare e sulla protezione da agenti infettivi, specie quelli che colpiscono l’apparato respiratorio.
La carenza di vitamina D, inoltre, ha effetti sfavorevoli in molte malattie reumatiche, sembra essere associata a un maggior rischio di sviluppare neoplasie, con particolare riferimento al tumore del colon-retto, ed è stata correlata anche a compromissione del benessere psichico e della capacità di memoria e concentrazione.
Recentemente hanno destato molto interesse le numerose segnalazioni secondo le quali uno stato vitaminico D normale risulta utile contro l’infezione da SARS-CoV-2 e sembra favorire un decorso e un esito più favorevole della malattia COVID-19, specie nei soggetti con co-morbidità.
Il potenziale impatto negativo del deficit di vitamina D sull’incidenza dell’infezione da SARS-CoV-2 e sulla prognosi della malattia COVID-19 è stato oggetto di particolare attenzione sin dall’inizio della pandemia ed è stato evidenziato in numerosi studi effettuati da ricercatori italiani e stranieri.
Ormai sono numerose le osservazioni che inducono a ritenere come uno stato carenziale di vitamina D possa rappresentare una condizione favorente l’infezione da SARS-CoV-2 e l’andamento negativo della malattia correlata COVID-19. Molti sono infatti gli studi che hanno dimostrato un’alta prevalenza di bassi livelli di vitamina D in soggetti con gravi manifestazioni di COVID-19 e una più favorevole evoluzione a seguito di somministrazione di alte dosi ella vitamina.
Sono questi i motivi per i quali dall’inizio del 2021 in Gran Bretagna è cominciata la distribuzione di vitamina D a circa 3 milioni di soggetti a rischio di COVID-19 (anziani, popolazione di colore, residenti in RSA) con un’iniziativa che dalla Camera dei Comuni è stata considerata a basso costo, a rischio zero e potenzialmente molto efficace. In Italia un provvedimento analogo è stato assunto dalla Regione Piemonte che nel protocollo per la presa in carico dei pazienti con COVID-19 seguiti presso il loro domicilio ha previsto la supplementazione con vitamina D come parte integrante del piano terapeutico.
I rapporti intercorrenti tra stato vitaminico D, infezione da SAR-CoV-2 e COVID-19 meritano di essere ulteriormente studiati per approfondire la conoscenza del ruolo che la deficienza di vitamina D svolge rispetto alla protezione dall’infezione, alla morbidità e letalità da COVID-19, nonché per definire dosi e schemi di trattamento potenzialmente utili per attenuare le manifestazioni cliniche più devastanti della malattia.
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