Cronache della ASLLa sanità al tempo della globalizzazione e della pandemia

La sanità al tempo della globalizzazione e della pandemia

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Negli ultimi decenni le sanità regionali hanno intrapreso, in modi e tempi diversi un analogo processo di modernizzazione, che ha significato lo smantellamento dei presidi ospedalieri presenti in tutti i paesi e città d’Italia, lasciandoli o costruendone di nuovi solo nei centri urbani maggiori.

Al grido: risparmiamo sulle piccole e obsolete strutture e investiamo sulle eccellenze, si è dato avvio ad una riconversione del sistema che ha puntato su pochi grandi ospedali e sulla creazione di una medicina territoriale che si doveva prendere carico di funzioni sino ad allora svolte dai vari reparti.

In questo palinsesto si è dato più spazio alle strutture private che hanno svolto l’attività beneficiando della copertura pubblica , anche qui per svolgere funzioni non più svolte dagli ospedali o solo in parte. 

Una trasformazione difficile, oltre che da un punto di vista tecnico, da uno più squisitamente politico, perché tra l’altro si trattava di mediare con i sindaci e le comunità locali che facevano barricate dinanzi alla progressiva spoliazione dei loro presidi.

Il processo di centralizzazione non ha interessato solo la sanità, ha coinvolto tutti gli aspetti del vivere sociale con una penalizzazione progressiva delle comunità locali e l’urbanizzazione nei centri maggiori.

L’organizzazione sociale caratterizzata dalla diffusione sul territorio di gruppi sociali, ognuno raccolto sotto un campanile e una torre civica, si è andato dissolvendo. Rimangono manifestazioni storico-folcloristiche a rivendicare un’appartenenza, un’identità.

Hanno contribuito i terremoti endemici, la costruzione di strade di grande comunicazione con interi paesi tagliati fuori dal traffico di viaggiatori, spesso unica risorsa economica e ragion d’essere.

Il nuovo assetto sanitario si è inserito in questo contesto. La contemporaneità si caratterizza anche per questi processi che la cultura dominante ha imposto di considerare necessari e irreversibili.

L’attuale crisi pandemica è esplosa nel contesto di questa realtà e della nuova sanità che ne era un corollario. Si è confrontata con la specializzazione estrema degli ospedali, la spoliazione del territorio, il depauperamento del personale attivo sul malato, rispetto alla proliferazione del personale e delle funzioni amministrative, l’aziendalizzazione con obbiettivi di profitto, l’esternalizzazione dei servizi. , la privatizzazione di fatto delle strutture pubbliche con l’istituto dell’intramoenia.

Tutto questo, accanto ad altro, ha creato terreno favorevole alla diffusione dell’infezione.

Una per tutte: non c’erano più letti per i nuovi, tanti malati.

Gli ospedali periferici avrebbero potuto essere camere di espansione della piena in arrivo. Invece no, gli ospedali erano diminuiti di numero, trasformati in strutture ad alta specializzazione, con degenze ridotte all’osso, ampio ricorso a trattamenti ambulatoriali o di un giorno, e molta attività scaricata sul territorio ossia sulla medicina territoriale. 

Ma questa non completamente rodata, si è trovata ad operare in un contesto sociale difficile con frammentazione dei legami familiari, situazioni di solitudine,  condizioni di degrado e senescenza.

Lo tsunami dell’epidemia è arrivato devastando le fragilità del sistema.                   

Tachipirina a casa, e per i casi gravi ricovero in ospedale”

Con questo editto si è espressa la risposta dell’istituzione politico-sanitaria alla pandemia.

Prima che si conoscesse l’identità del patogeno , prima che si prendesse coscienza della varietà di decorsi clinici,  prima delle possibilità terapeutiche, della loro efficacia, e prima di tutto il resto che è seguito:  il proclama  Tachipirina a casa,e  per i casi gravi ospedale. , è stata considerata l’unica risposta scientificamente valida al dilagare della pandemia.

In attesa del vaccino, da affiancare a quella disposizione, una volta disponibile e aspettando che nuove evidenze suggerissero approcci terapeutici diversi.

Però non possiamo nasconderci che quell’imperativo categorico nascondesse l’impossibilità del sistema sanitario a fornire una risposta diversa, per la scarsità di posti letto nei reparti di malattie infettive, e ancor più nelle terapie intensive. Sorretti dalla speranza che la malattia fosse solo un’influenza più grave e che se la fortuna ci avesse assistito bastava la tachipirina, il riposo, e casa per evitare e la diffusione, e la necessità di un ricovero ospedaliero. Così purtroppo non è stato.

E d’altra parte abbiamo constatato che in alcuni casi di personaggi illustri il protocollo di comportamento e di terapia imposto è stato disatteso  e si è intervenuti precocemente con un approccio diverso e con buoni risultati. Anche molti medici di base  hanno rifiutato le indicazioni delle autorità, curando i malati con quanto la loro esperienza e cultura medica suggeriva: anti-infiammatori, antibiotici, antivirali, eparina, secondo protocolli di associazione diversi. A loro detta con risultati straordinari, da far dire ad alcuni di loro che non avevano avuto nessuna necessità di ricoveri o lamentato decessi.

Oggi stanno uscendo studi scientifici, uno è quello dell’istituto Mario Negri di Milano, che suggeriscono un approccio terapeutico nelle fasi iniziali della malattia che comprende l’impiego di fans, aspirina invece del paracetamolo, eventualmente antibiotici ed eparina secondo un algoritmo molto chiaro.

Lo studio dimostra una netta diminuzione di ricoveri ospedalieri per i casi così trattati, che è stato un bene per quanto riguarda l’evitare l’affollamento delle strutture, di più e soprattutto, ha ridotto la mortalità che consegue al ricovero in terapia intensiva. Oggi la vaccinazione e l’arrivo a breve di uno specifico antivirale promette di risolvere il problema per adesso e il futuro. Ma abbiamo avuto circa centotrentamila morti.

C’è il sospetto che la carenza di posti letto e attrezzature , e l’assolutezza dogmatica del “ tachipirina e casa”, per altro comprensibile per le ragioni sopra esposte, abbiano qualche responsabilità.

Forse la precedente organizzazione sanitaria con i tanti letti, dei tanti ospedali, avrebbe consentito ricoveri precoci e terapie adeguate, ma non è dimostrabile.   Forse doveva andare così, con questa strage di malati e con loro di medici e infermieri, che ha segnato la storia del nuovo millennio, del tempo dello smisurato orgoglio dell’uomo fattosi Dio.






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