La pandemia Covid-19 non ha risparmiato gli anziani, anzi la popolazione in questa fascia d’età è stata più facilmente colpita dall’infezione e nella maggior parte dei casi purtroppo non è riuscita a debellare il virus. Questo è avvenuto soprattutto nella prima difficilissima fase della pandemia, quando non avevamo ancora sufficiente conoscenza né del virus né delle terapie più appropriate per poterlo contrastare. Gli anziani, già di per sé fragili per motivi fisiologici semplicemente correlati all’età, sono oggi spesso portatori di molte patologie con le quali tuttavia, grazie al progresso della Medicina e della Farmacologia, riescono a convivere pur se, molte volte, in un precario equilibrio che li rende ancor più suscettibili ad insulti patologici di diverso genere. Questo concetto vale anche se è ormai considerazione accettata che l’età anagrafica non coincida sempre con l’età biologica e che quest’ultima costituisca il vero parametro con cui considerare un individuo in funzione delle sue caratteristiche psico-fisiche di buona salute. La “cronicità” è quindi la vera sfida attuale per la Medicina e per la società presente e futura. Abbiamo molti 80enni in splendida forma attivamente impegnati nella vita sociale, così come ne abbiamo molti del tutto dipendenti da varie forme di assistenzialismo a causa delle loro comorbidità.
È notizia diffusa come, nel corso della attuale pandemia, la decimazione degli anziani sia avvenuta soprattutto nelle Residenze Sanitarie, luoghi nei quali il contagio del virus si diffondeva rapidamente, passando inosservato e sottovalutato da chi avrebbe dovuto da subito lanciare un allarme. Ed è ancora di rilievo la constatazione che qualunque tentativo di algoritmo predittivo per il calcolo del rischio di mortalità correlato a questa infezione prenda in considerazione in primis l’età e le comorbidità.
Quindi, senza entrare nel merito di situazioni contingenti che hanno facilitato la decimazione degli anziani nelle RSA avvenuta nel corso della pandemia, se la maggiore letalità dell’infezione in questa fascia di età trova una spiegazione soprattutto nelle due citate variabili età e comorbidità, sarebbe logico ritenere che l’età vi contribuisca in maniera progressiva così come il numero delle comorbidità. Il “mondo reale” ci ha dimostrato qualcosa di diverso: abbiamo letto sui quotidiani, inizialmente come notizia sensazionale isolata, ma poi sempre più spesso presi dalla curiosità scientifica sottesa nella notizia, del resoconto di centenari e in qualche caso di ultracentenari brillantemente sopravvissuti all’infezione da Covid-19 in Italia e nel mondo.
È vero, negli ultimi decenni la struttura demografica delle popolazioni è notevolmente cambiata, l’Italia è uno dei paesi più longevi al mondo, cosa che ha parzialmente reso ragione della nostra maggiore mortalità per l’infezione; in ulteriore considerazione a 75 anni ne dimostriamo mediamente dieci di meno, la nostra aspettativa di vita, 85 anni per le donne e 81 per gli uomini, è tra le migliori al mondo, ma questo non ha permesso di risparmiare gli ultra80enni dalla pandemia, salvaguardando invece i soggetti con età ancora più avanzata, i centenari.
I nostri centenari, secondo gli ultimi censimenti circa 15.000, di cui l’84% donne e dei quali più di 1000 al di sopra dei 105 anni con 21 supercentenari, quelli con età superiore a 110 anni, sono ben rappresentati a livello mondiale. Lo studio, in corso di pubblicazione, “Obiettivo 120 anni nell’analisi dei centenari italiani” recentemente condotto dalla Fondazione San Camillo-Forlanini su un ristretto campione di soggetti centenari italiani, pur se non rappresentativo di tutta la popolazione di centenari presente in Italia per i limiti dei criteri di reclutamento, ha effettivamente riscontrato che si tratta di una popolazione con caratteristiche peculiari.
Questi attuali centenari sono sopravvissuti a due devastanti conflitti mondiali e ad un’altra terribile pandemia, la “spagnola” che aveva ugualmente decimato gli anziani, alla povertà, alla fatica di un lavoro pesante, spesso manuale, ma al tempo stesso per loro vivificante perché svolto spesso all’aperto in un contesto rurale, sulla propria terra, terra a cui sono tenacemente attaccati e che non hanno abbandonato neanche dopo aver raggiunto l’età della pensione, perché per loro “la terra è vita”. Sono persone vissute tra grandi difficoltà ambientali ed economiche, in gran parte con un minimo livello di scolarizzazione, ma in moltissimi casi sono vissuti circondati da una famiglia molto numerosa, ed ancora oggi in molti casi vivono nella loro casa di sempre, circondati dall’affetto di figli e nipoti e talvolta anche dal coniuge. Molti hanno avuto familiari vissuti più di 90 e di 100 anni, a dimostrazione di prerogative genetiche di particolare rilievo. Rispetto alle condizioni di salute, pochi presentano comorbidità limitate ed assumono pochi farmaci, diversamente da quel che accade negli anziani di oggi afflitti da numerose comorbidità e che assumono numerose classi di farmaci. Nel test finalizzato a valutare il grado di indipendenza nel compiere gli atti del vivere quotidiano (Indice di Barthel-ADL) il 7% dei soggetti ha dimostrato una indipendenza totale/quasi autosufficienza e il 24% una dipendenza lieve. Mettendo in relazione l’Indice di Barthel con l’assenza di “patologie” o con la presenza di un numero crescente di esse, si vede che in assenza di patologie le percentuali di indipendenza aumentano rispetto ai dati generali, per decrescere progressivamente con l’aumentare del numero di patologie presenti.
I centenari di oggi sono quindi persone forti, sono stati grandi lavoratori, ottimisti, estroversi, resilienti, ancora dominanti alla loro età, prepotenti ed anche un po’ filosofi. Questa tendenza a controllare il mondo circostante è “indice di una notevole grinta che è bilanciata dalla necessità di adattarsi alle circostanze che cambiano”. La gran parte dei nostri centenari è contenta, orgogliosa di aver superato tanti ostacoli e di essere arrivata in molti casi abbondantemente oltre la soglia dei 100 anni.
Sono persone che hanno vissuto in modo positivo la propria esperienza di vita, e alcune recenti ricerche hanno dimostrato che chi pensa positivo ha “maggiori probabilità di vivere più a lungo, forse perché capace di regolare le emozioni ed il comportamento nonché di riprendersi da fattori di stress e difficoltà in modo più efficace di altri” e perché tende ad avere abitudini e stili di vita più sani. Molti centenari hanno favorevolmente accettato di sottoporsi al vaccino anti Covid-19, desiderosi di continuare a vivere in sicurezza; quindi, nonostante la ragguardevole età raggiunta, sono ancora proiettati verso il loro futuro, perfettamente consapevoli delle difficoltà del vivere quotidiano, ma pronti ad affrontarle al meglio possibile.
È quindi ipotizzabile che il loro “status” in buona salute psico-fisica, dovuto alle loro intrinseche ottimali caratteristiche, sia stato determinante nel superare la pandemia ed abbia potuto rappresentare quindi una “rivincita” rispetto a quanto accaduto negli anziani 80enni che non hanno potuto vantare analoghe condizioni psico-fisiche di buona salute.