Il welfare italiano in era Covid

Necessaria premessa

Qualora, nel corso di una conversazione, di una relazione congressuale, di una disputa accademica, o di altra occasione formale, si accenni al delicato argomento dei sistemi sanitari in vigore oggi in Europa – cosa che, ai nostri giorni, anche quale diretta conseguenza dei disagi dovuti alla pandemia di COVID-19, accade abbastanza frequentemente – il pensiero corre subito al Wellfare italiano con la sua impronta anglosassone, cui la riforma sanitaria del 1978 (legge n. 833) si riferisce e alla quale si è adeguata, attivando un impianto operativo decentrato, su base comunale e regionale, ben diverso da quello preesistente, che si presentava sostanzialmente centralizzato. Tale impianto preesistente era imperniato, dapprima sul Ministero dell’interno [1] ed i suoi organi sul territorio (Prefetti, Sottoprefetti e Sindaci) e, successivamente, una volta costituito nel 1958, sul Ministero della sanità (oggi Ministero della salute) in sede centrale e sui suoi organi periferici (i Medici e i Veterinari provinciali e gli Ufficiali sanitari nelle Circoscrizioni comunali).

Il riferimento al Wellfare– italiano o di altri Paesi Nord Europei che sia – è divenuto con il tempo un classico, per cui ogni qual volta ci si riferisce al modello italiano del sistema dianzi descritto saltano subito agli occhi le sue caratteristiche, in quanto la sua attuazione pratica, è stata avvantaggiata dal fatto che l’apparato di supporto alle funzioni operative delle strutture aziendali e degli Enti del S.S.N. combacia quasi perfettamente con l’organizzazione del Servizio sanitario inglese, almeno per quanto riguarda il livello decentrato: gli Enti locali territoriali.

Negli ambiti sopradescritti, caratterizzandoli con la loro obbligata presenza, operano a pieno titolo i professionisti della sanità – ossia gli appartenenti alle professioni sanitarie, o, meglio, alle professioni sociosanitarie. Nel tempo, infatti, si è verificata una commistione operativa delle funzioni delle differenti professionalità di natura squisitamente sanitaria con le affini professionalità operanti nel settore della socialità – entrambe, destinatarie di una “legislazione di favore”, in quanto considerate “professionalità protette dall’ordinamento” nel tentativo, da parte dello Stato, di evitare il verificarsi di fatti in grado di danneggiare tanto la collettività servita quanto i singoli soggetti che la costituiscono: i cittadini destinatari delle prestazioni.

Servizi sanitari e servizi sociali nell’ordinamento italiano

Lo sviluppo dei principi suaccennati può indurre il lettore a mostrare un interesse ad ottenere una coerente risposta a due puntuali interrogativi circa l’attivazione, l’evoluzione e lo svolgersi, nel tempo, del modello di sistema sanitario italiano, atteso che è stato a lungo perseguito il tentativo finalizzato a considerarlo una espressione di quel Wellfare di origine anglosassone, già introdotto e operante in alcuni  Paesi del Nord Europa, anche se tale tentativo, sul campo, non è poi riuscito appieno, date le diversità e le divergenze esistenti tra i due sistemi.

Quanto ai due interrogativi che possono sorgere nel lettore, il primo è: “come e perché si è arrivati, oggi, a ritenere superato l’attuale sistema sanitario gestito dal S.S.N. che aveva sostituito il sistema sanitario precedente basato sulla cd. ”polizia sanitaria” esercitata delle Autorità statali preposte alla vigilanza nel settore?”.

Il secondo quesito, invece, è il seguente: “l’attuale sistema sanitario del Paese – disegnato nell’ambito dei principi espressi dalla legge di riforma sanitaria n. 833/1978 – è ancora valido o si deve ritenere superato dallo sviluppo tecnico/scientifico subito dalla sanità dal 1978 ad oggi, per cui può sorgere la opportunità o, meglio, la necessità di intervenire legislativamente con sostanziali modifiche/integrazioni?”.

La risposta ai due interrogativi è abbastanza semplice e scontata in quanto l’impianto del sistema sanitario si è consolidato nel tempo, ausiliato da quella situazione geografico/normativa sfociata nell’unificazione del Regno, prima, e successivamente, a cascata nell’unificazione dei sistemi sanitari in vigore nei vari stati preunitari, fino ad arrivare in tempi più recenti (201672017) all’istituzione del terzo settore nel cui ambito spicca la figura dell’impresa sociale – ma sicuramente presenta una serie di criticità che portano ad auspicare una ulteriore riforma generale del sistema.

Comunque, per fornire una risposta soddisfacente ai due  interrogativi è doveroso esaminare i diversi motivi che hanno spinto il legislatore ad affrontare il problema del “cambiamento” senza incorrere in quegli eccessivi “traumi operativi” che si potevano ipotizzare – atteso che il sistema reggeva sostanzialmente da oltre un secolo – ove si eccettuino le modifiche adottate al fine di aggiornare sia il sistema, adeguandolo così  alle innovazioni tecnico/scientifiche, sia le procedure operative e organizzative sulla base delle novità intervenute nell’apparato assistenziale e, più in generale, nell’assetto della P.A. e dei suoi organi. Tra questi vanno ricompresi i complessi scenari derivati dall’attuazione del S.S.N. e articolati nei diversi Servizi Sanitari Regionali, specie dopo l’entrata in funzione delle Regioni ordinarie (legge 16 maggio 1970, n. 281) in attuazione di quanto stabilito nel Titolo V° della Costituzione [2].

A questo punto è doveroso richiamare l’attenzione sui continui aggiornamenti tecnologici ed organizzativi cui si è accennato, i quali, abbastanza frequentemente, sono intervenuti nel settore sanitario invitando, nel tempo, le Autorità, gli studiosi e i professionisti interessati a riconsiderare il sistema in atto, anche alla luce di quanto era accaduto nel resto dell’Europa e in particolar modo nei Paesi Nord Europei alla fine della seconda guerra mondiale.

Peraltro, è doveroso sottolineare come questa operazione abbia inciso negativamente sulla entrata in funzione, sul territorio italiano, della rete delle Regioni ordinarie, con il collegato decentramento normativo a tali Istituzioni della materia dell’assistenza sanitaria, anche se quale materia di competenza ripartita tra lo Stato e le Regioni [3]. Tale intervento aveva anche comportato l’attivazione di sistemi diversi per organi e strutture pubbliche che, secondo una visione centralistica del sistema sanitario, avrebbero dovuto presentare gli stessi punti di forza e le medesime criticità in qualsiasi parte del territorio italiano operassero. Al tempo stesso, nel resto dell’Europa, si andavano comunque affermando, con sempre maggior vigore, i principi ispiratori del Welfare, anche se, nei Paesi ove il sistema era stato attivato, non aveva ottenuto il successo sperato.

Tutti questi fenomeni, nel loro complesso, avevano fornito lo spunto per attivare una pressante richiesta,  da parte del mondo sanitario e dei paralleli settori dedicati agli aspetti sociali, per l’adozione di un sistema sanitario che recepisse i principi del Welfare State, in tema di universalità e gratuità delle prestazioni, anche se poi tali caratteristiche erano state in parte disattese nell’atto di approvazione del provvedimento istitutivo del S.S.N. e dei collegati decreti di attuazione.

Tuttavia la legge n. 833/1978, istitutiva di un S.S.N. ispirato ai principi basilari del Welfare State, si è dimostrata, in sede di pratica applicazione, alquanto carente, tanto da costringere il legislatore ad  intervenire ripetutamente  per correggere le criticità emerse in sede attuativa del sistema. Se a questo poi si aggiunge trattarsi di un sistema basato sulla gratuità assoluta delle prestazioni dovute, unito a quella universalità riferita ai destinatari dei servizi e delle prestazioni, il sistema non poteva, sul piano economico, che dimostrarsi perdente. Tale esito negativo ha investito, alla fine del secolo scorso, anche il Sistema sanitario aziendalizzato con il D.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, e, successivamente, il modello aziendalistico riordinato dalla legge 19 giugno 1999, n. 229.

Del resto, anche la legge n. 833/1978, istitutiva del S.S.N., una volta applicata, aveva mostrato alcuni  limiti che, uniti ai costi conseguenti alla riforma sanitaria e al momento di recessione che il Paese si accingeva ad attraversare, hanno costretto il legislatore a rivedere l’impostazione iniziale per aderire alle sempre nuove esigenze evidenziate dagli aspetti economico/imprenditoriali del sistema.

Si è arrivati così all’aziendalizzazione del sistema sanitario – definitivamente attuata con il D.lgs. 19 giugno 1999, n. 229, sia pure intervenendo su alcuni principi basilari caratteristici del Welfare State, quali l’universalità e la gratuità delle prestazioni erogate – attivando una specie di compartecipazione dell’utente all’onere delle prestazioni e dei servizi erogati mediante il rafforzamento dell’entità dei tickets, e il contestuale sistema di esonero per determinate categorie di utenti.

Al contempo, il legislatore è intervenuto sull’assetto organizzativo del S.S.N. e delle sue strutture, trasformando le esistenti UU.SS.LL. in Aziende Sanitarie Locali e/o Aziende Ospedaliere, anche se poi, nel calare la nuova organizzazione nella realtà operativa del Servizio, è mancato il coraggio di andare fino in fondo e disciplinare le Aziende del S.S.N. secondo il modello delle aziende operanti nel mondo produttivo privato, ossia un modello chiaramente imprenditoriale, caratterizzato non più da moduli assistenziali di origine caritativa [4], bensì da modelli di evidente derivazione aziendalistica.

Le prestazioni sanitarie e sociosanitarie previste nei LEA

Sul punto, per completezza di trattazione, è opportuno richiamare l’attenzione sui Livelli Essenziali di Assistenza (i cd. LEA), costituiti da quelle  prestazioni e da quei servizi che il S.S.N. è tenuto a garantire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di compartecipazione alla spesa sanitaria (i cd. tickets). Da tener presenteche le prestazioni incluse nei LEA sono individuate sulla base dei principi di effettiva necessità assistenziale, di efficacia e di appropriatezza insiti nel  Wellfare italiano.

I principi generali che caratterizzano la piattaforma sulla quale è stato disegnato l’impianto del S.S.N e la loro filosofia sono costituiti da:

  1. Il rispetto della dignità e della libertà della persona;
  2. L’universalità del Servizio, articolata in due ambiti operativi riferiti, rispettivamente, ai soggetti tutelati (totalità della popolazione protetta) e al ventaglio delle prestazioni erogate dal S.S.N. (globalità delle prestazioni);
  3. La tutela della popolazione protetta: il legislatore ha suddiviso la popolazione in due categorie: gli utenti del Servizio e i non utenti in senso stretto (stranieri, apolidi, etc.), i quali  possono usufruire delle prestazioni erogate dal S.S.N;
  4. La globalità delle prestazioni, considerata  parte del principio di cui alla lettera B);
  5. L’eguaglianza dei cittadini nei confronti del trattamento erogato dal S.S.N., principio che sarà ripreso alcuni anni più tardi (1995) con l’approvazione dello schema di riferimento della Carta dei servizi pubblici, documento formale che precisa i parametri di tale eguaglianza,
  6. L’integrazione sociosanitaria, sempre presente nella  visione di una applicazione globale del Welfare State;
  7. La gratuità delle prestazioni erogate, principio che deve essere esaminato unitamente a quello della partecipazione dei cittadini alla spesa del Servizio di cui si è detto (il ticket) onde chiarire la posizione del cittadino/utente nel panorama dell’attuale sistema sanitario del Paese.

In particolare, è qui opportuno ricordare i contenuti dell’ultimo provvedimento adottato in materia di LEA (DPCM 12 febbraio 2017) che elenca specificamente una serie di prestazioni che rientrano tra quelle che devono essere erogate agli aventi diritto e che testimoniano come non siano esclusivamente di natura sanitaria, ma che rivestano almeno in parte un carattere sociale, a dimostrazione che, in sede operativa, si presenta molto difficile scindere le attività di assistenza sanitaria dalle attività di assistenza sociale. Per questo motivo si è arrivati ad una suddivisione legislativa delle prestazioni sociosanitarie, basata anche, e soprattutto, sull’assunzione degli oneri relativi, in:

  1. Prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, di competenza dei Comuni, i quali provvedono al loro finanziamento negli ambiti previsti dalle leggi regionali; trattasi delle attività finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, alla individuazione, alla rimozione e al contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite acquisite;
  2. Prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, che si concretizzano in quelle attività del sistema sociale che perseguono l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute;
  3. Prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria. Si tratta di quelle prestazioni caratterizzate da una particolare rilevanza terapeutica e dall’intensità della componente sanitaria, che attengono prevalentemente alle aree materno/infantili, anziani, handicap, patologie psichiatriche e dipendenze da droga, alcool e farmaci, patologie per infezioni da HIV e patologie in fase terminale, inabilità e disabilità conseguenti a patologie cronico/degenerative.

A conferma di quanto sopra, è sufficiente citare l’ultimo, in ordine di tempo, dei provvedimenti relativi alla definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza – LEA (il D.P.C.M. 12 febbraio 2017 [5]), che ha dedicato un intero capitolo (il quarto) all’assistenza sociosanitaria, capitolo  nel quale sono individuati alcuni importanti istituti che  assicurano l’assistenza sociosanitaria, residenziale e semiresidenziale, a particolari categorie di persone:

  1. I percorsi assistenziali integrati domiciliari, territoriali, residenziali e semiresidenziali che prevedano l’erogazione congiunta di attività e prestazioni afferenti all’area sanitaria e all’area dei servizi sociali.
  2. Le cure domiciliari;
  3. Le cure palliative domiciliari;
  4. L’assistenza sociosanitaria ai minori, alle donne, alle coppie, alle famiglie;
  5. L’assistenza sociosanitaria ai minori con disturbi in ambito neuropsichiatrico e del neurosviluppo;
  6. L’assistenza sociosanitaria alle persone con disturbi mentali;
  7. L’assistenza sociosanitaria alle persone con disabilità;
  8. L’assistenza sociosanitaria alle persone con dipendenze patologiche;
  9. L’assistenza sociosanitaria residenziale extraospedaliera ad elevato impegno sanitario;
  10. L’assistenza sociosanitaria residenziale e semiresidenziale alle persone non autosufficienti;
  11. L’assistenza sociosanitaria residenziale alle persone nella fase terminale della vita;
  12. L’assistenza sociosanitaria, residenziale e semiresidenziale, ai minori con disturbi in ambito neuropsichiatrico e del neurosviluppo;
  13. L’assistenza sociosanitaria, residenziale e semiresidenziale, alle persone con disturbi mentali;
  14. L’assistenza sociosanitaria, residenziale e semiresidenziale, alle persone con disabilità.

Come si è detto, tra i principi  ispiratori del Wellfare italiano, oltre agli aspetti collegati all’assistenza sanitaria, spicca, sempre presente, l’integrazione sociosanitaria, già rappresentata a suo tempo dal sistema della sanità in atto, principio recentemente rafforzato  dalla  legge 11 gennaio 2018, n. 3 di riordino generale delle professioni sanitarie.

A questo proposito si deve ricordare il contributo che la legge citata ha fornito a questa impostazione, che ha riguardato anche il riordino delle professioni sanitarie, intervenendo sul cd. sistema ordinistico, che, nonostante gli interventi legislativi della fine del secolo XIX°, finalizzati ad una revisione/aggiornamento del sistema, non era riuscito ad allinearsi in modo completo ed efficace alle innovazioni intervenute, anche su pressioni dell’U.E., quali: il titolo universitario abilitante all’esercizio professionale (laurea triennale o specialistica), le nuove professionalità sociosanitarie, etc.

La premessa al presente studio sul Welfare italiano, comprese le professioni sanitarie e  sociosanitarie, non può prescindere dal riferimento storico al sistema in vigore nel secolo diciannovesimo, in cui, nel periodo 1865/1870, si è concretizzata l’auspicata unificazione amministrativa del Regno con il logico assorbimento / allineamento delle strutture, delle normative e dei soggetti che, negli Stati preunitari, provvedevano alla tutela della salute delle popolazioni assistite.

Ed è proprio da questo scenario transitorio che emerge l’assoggettamento dell’esercizio di particolari professioni o di specifiche attività alla vigilanza dell’Autorità ogni qual volta essa ritenesse rilevante l’impegno dello Stato e degli Enti pubblici sott’ordinati ad impedire il verificarsi di fatti dai quali potessero derivare, in qualche modo, pericoli per la collettività servita.

Il descritto principio di ordine generale – valido quindi per tutti i settori d’intervento dei pubblici poteri – ha trovato un più fertile terreno nel settore sanitario, tanto che proprio qui è stato regolamentato l’esercizio delle professioni sanitarie e delle altre ad esse affini (professioni sociosanitarie, professioni sanitarie ausiliarie, arti ausiliarie delle professioni sanitarie), tutte individuate e disciplinate dall’ordinamento, che ha provveduto anche a differenziarle rispetto alle altre professioni intellettuali.

Ma, tornando alla legge n. 3/2018, è doveroso qui sottolineare come il provvedimento abbia aperto la strada all’applicazione pratica della competenza dell’assistenza sociale a tutta una serie di professionalità.

Infatti, la norma in questione ha istituito – accanto alle quattro Aree operative già esistenti nelle quali sono state distribuite le professioni sanitarie formalmente riconosciute come tali – una quinta Area (l’Area delle professioni sociosanitarie); al contempo la legge n. 3/2018 ha preso atto che preesistevano e operavano, nel contesto dell’assistenza sociale, alcune puntuali professionalità (ben quattro: il sociologo, l’assistente sociale, l’educatore professionale e l’operatore sociosanitario) ed ha stabilito una nuova procedura per il riconoscimento dei profili professionali sociosanitari, nel cui iter approvativo (Accordi sanciti in sede di Conferenza permanente Stato/Regioni) è stato previsto l’intervento consultivo dei due organi tecnici del settore: il Consiglio Universitario Nazionale  e il Consiglio Superiore di Sanità.

Infine, ha individuato direttamente due nuovi  profili  di professioni sanitarie (il chiropratico e l’osteopata), e, con alcuni accorgimenti normativi, ha parificato alle professioni sanitarie alcune figure della Dirigenza sanitaria del S.S.N. riconoscendole di fatto come professioni sanitarie (il biologo, lo psicologo, il fisico e il chimico).

Conclusioni

Terminata questa breve disamina del Wellfare italiano oggi, emerge chiaramente il superamento della legge n. 833/1978, istitutiva del S.S.N., attribuibile, almeno in parte, alle modificazioni/integrazioni che, negli oltre quarant’anni di sua vigenza (1978/2020) sono state apportate al modello originario al fine di eliminare, o di ridurre, le tre più rilevanti criticità che hanno caratterizzato il sistema del S.S.N. riformato:

  1. l’eccessivo aumento dei costi di gestione del sistema;
  2. l’impianto aziendalistico adottato, sulla base di alcune teorie che vedono nella privatizzazione del S.S.N. la soluzione del problema;
  3. la suddivisione delle competenze normative tra Stato, Regioni e Province autonome che ha provocato – e continua a provocare – gravi ripercussioni sui tempi operativi delle varie disposizioni.

Da qui l’opportunità, per non dire la necessità, di una rielaborazione del D.lgs. n. 833/1978 in una versione diversa, più moderna, che tenga nel debito conto l’esperienza fatta e salvaguardando al tempo stesso il rispetto, da parte dello Stato, di alcuni principi informatori – che si possono definire “democratici” cui il provvedimento di riforma sanitaria era ispirato – con evidente riferimento a quanto stabilito in proposito dalla stessa Costituzione.

Questi principi possono essere così riassunti:

  1. il rispetto della dignità e della libertà delle persone;
  2. l’Universalità del Servizio, con chiaro riferimento sia alla totalità della popolazione protetta, sia alla globalità delle prestazioni erogate;
  3. l’eguaglianza dei cittadini nei confronti dei trattamenti erogati dal Servizio;
  4. la posizione di centralità nel sistema attribuita al paziente/utente.

Si deve, comunque, tener presente che la riforma sanitaria del 1978 si è dimostrata nei fatti una riforma sociosanitaria, atteso che la governance dell’azione dei servizi sociali – competenza che era sempre spettata ai Comuni, i quali erano tenuti quanto meno ad accollarsene la spesa – si è dimostrata positiva, tanto da creare le premesse per una effettiva integrazione sociosanitaria nel quadro più generale del sistema.                              


[1] All’epoca, il Dicastero dell’interno accentrava tutte le competenze in materia assistenziale, tra le quali la sanità in generale e l’assistenza sociale, a livello centrale e periferico.

[2] Artt. 117 e 118 Cost..

[3] Con la conseguenza dell’attribuzione delle leggi di principio alla competenza statale e dell’assegnazione della competenza a varare le leggi di esecuzione delle prime alle Regioni, suddivisione che ha comportato l’adozione da parte delle singole Regioni di un modello di Servizio Sanitario Regionale disegnato sulla base delle necessità di ciascun territorio regionale e la logica conseguenza di una serie di modelli e di apparati abbastanza diversificati tra loro.

[4] Si citano per tutte le cd. IPAB e le istituzioni religiose.

[5] Pubblicato nel S.O.G.U. n. 45 del 18 marzo 2017.

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