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Uomo, animali, microrganismi: la complessità della convivenza nella natura

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Anche se spesso mi succede di rimanere colpito dalla preparazione di alcuni giornalisti TV che, negli iterativi talk show di questi mesi, con grande puntualità e padronanza del problema, discettano delle varianti del virus Covid 19, non si può negare che la attuale epidemia, con le sue drammatiche conseguenze abbia preso tutti di sorpresa.  

Sin dall’antichità si sa che le infezioni, anche le più banali, possono andare incontro a complicazioni pericolose per la vita di un uomo e, in genere, si sa che epidemie locali e grandi pandemie hanno condizionato il corso delle guerre, hanno determinato il destino delle nazioni e degli imperi ed hanno influenzato il corso della storia e il progresso della civilizzazione. Come qualcuno ha detto, sono stati gli attori principali nel dramma della Storia dell’Umanità. In realtà, ancora oggi le malattie infettive hanno un grosso impatto sulle condizioni di salute delle popolazioni, essendo circa 25 milioni le persone che muoiono ogni anno nel mondo per malattie o complicanze infettive.

 Ed è anche per tutto questo, che la maggioranza delle persone è bene al corrente di alcune peculiari caratteristiche delle Malattie infettive, come per esempio: 1) che a differenza delle altre malattie che affliggono l’uomo, le malattie infettive abbiano sempre un esordio improvviso e imprevedibile; 2) che a determinarle sia per lo più una singola causa, cioè un microrganismo, e non una serie di concause, come succede nelle malattie più comuni; 3) che dopo la guarigione, oppure dopo interventi vaccinali nei confronti del loro agente causale, si sviluppi un’immunità durevole.

 Perché, quindi, siamo stati colti da tanta angosciosa sorpresa?

 Innanzitutto, i successi scientifici in vari campi della Medicina in generale, e soprattutto nella terapia delle infezioni, avevano contribuito a creare una fiducia eccessiva nella nostra capacità di tenerle sotto controllo. Negli ultimi due secoli, che poi rappresentano “un battito di palpebre” nella storia evolutiva dell’uomo e dei microrganismi, vi erano stati dei progressi davvero esaltanti con le scoperte della Microbiologia, della Immunologia, della Epidemiologia e degli Antibiotici. Il conferimento di premi Nobel a ricercatori che avevano avuto un ruolo assai importante in questi successi e che ormai sono a tutti noti come Koch, Ehrlich, Domagk, Fleming, Florey e Chain, Von Behering, Vaksman, testimonia dell’importanza attribuite a queste conquiste da parte del mondo scientifico e del mondo intero.  Il trattamento delle acque, il controllo dei vettori, il programma di riduzione dei roditori, l’impiego della vaccinazione, già proposta su base empirica da Jenner oltre due secoli prima, insieme alle conquiste sociali, evolute di concerto con questi fulgidi esempi di successi scientifici, avevano profondamente cambiato il destino dell’uomo.

L’andamento della aspettativa di vita, che era di 33 anni ai tempi dei greci e dei romani, che era di 49 anni in America all’inizio del ‘900, e che era vicina agli 80 anni negli anni ’70, testimoniava efficacemente del miglioramento delle nostre generali condizioni di salute. Molte malattie assai temute negli anni precedenti erano divenute quasi una rarità. La continua immissione sul mercato di nuove molecole di antibiotici sempre nuovi e più efficaci sembrava oltremodo rassicurante.

Insomma, si aveva l’impressione davvero che malattie, che avevano segnato la storia dell’umanità sin dai primordi della civilizzazione, fossero ormai divenute facilmente controllabili!

 Addirittura è ancora emblematico di questo generale ottimismo un pronunciamento solenne che il Ministro della Sanità americana fece in una seduta del Congresso degli Stati Uniti nel 1967: “Possiamo considerare chiuso il libro delle Malattie Infettive!…..”, a significare che le Malattie Infettive non rappresentavano più un problema.

 La previsione fu allora condivisa con entusiasmo tanto che la maggior parte delle risorse di ricerca governative vennero allora concentrate sulle malattie cardiovascolari e sul cancro, le principali cause di mortalità e invalidità.

 Tanto solenne era stato il pronunciamento del ministro americano, tanto tempestiva e cocente fu la smentita: nel 1981, il mondo assisteva attonito al diffondersi dell’epidemia mortale di Aids, dovuta a un nuovo virus, il virus HIV. Nel 2018, circa 38 milioni di persone risultavano essere stati infettati e ben 32 milioni risultavano i morti per questa infezione. Solo dal 1996, grazie all’impiego di una poli-chemioterapia antiretrovirale con inibitori della transcriptasi inversa e un inibitore della proteasi, si ebbe una importante riduzione della mortalità per AIDS con cronicizzazione della infezione. Tutt’altro che debellata, la sindrome da HIV è diventata endemica nei paesi sviluppati, dove è crollato il numero di decessi, ma non quello dei contagi, mentre è ancora uno dei più gravi fattori di mortalità nei paesi in via di sviluppo, all’origine di gravi problematiche sociali, etiche, economiche e organizzative.

L’epidemia di AIDS ha rappresentato l’esempio più eclatante della nostra vulnerabilità al mondo dei microrganismi. Essa ha testimoniato la possibilità concreta ed attuale che un microrganismo “nuovo” o una variazione genetica di uno vecchio possono essere responsabili di una epidemia, ma ci ha anche colpito sia per il ruolo importante esercitato dalle modalità di trasmissione, strettamente legate alla condotta delle liberalità più private della persona, e sia per la rapidità della diffusione pandemica, conseguente alla velocità e alla ricchezza di collegamenti che fanno parte della nostra società, ormai divenuta globale.

 Ma oltre l’Aids, negli anni ‘80, il Center of Diseases Control, il CDC di Atalanta, uno dei centri di riferimento della Sanità Pubblica più importanti a livello mondiale, ebbe modo di riportare che il problema delle malattie infettive era venuto nuovamente alla ribalta. In molti casi si trattava di infezioni emergenti, infezioni, cioè dovute a microrganismi “nuovi”, cioè microrganismi che non si erano mai trovati precedentemente. In altri casi, invece, si trattava di infezioni riemergenti, cioè infezioni che era sembrato che fossero scomparse, ma che erano tornate di attualità.

Nel giro di poco tempo il CDC di Atalanta ebbe modo di documentare tante di queste malattie emergenti: oltre l’Aids, l’Epatite da virus C, la Malattia di Ebola, la Febbre emorragica con sindrome renale, la Malattia da Hantavirus, la Erhlichiosi, la Malattia di Lyme, La Malattia dei Legionari, ecc. Ma anche di malattie riemergenti, per lo più dovute al deterioramento delle infrastrutture della sanità pubblica, che pure avevano avuto successo nel salvaguardare, con opportune misure di controllo, le esigenze di salute della popolazione. Fanno parte di questo gruppo di malattie il colera, la febbre gialla, la meningite meningococcica, la dengue, ecc. 

Infezioni emergenti, per un verso, e riemergenti, per un altro, sono poi anche rappresentate dalle infezioni sostenute da microrganismi resistenti agli antibiotici. Emergenti, perché mai finora avevano assunto l’attuale dimensione, tanto che per alcuni microrganismi oggi non vi è alcuna possibilità di trattamento; riemergenti, perché nel corso di questi anni, dopo la scoperta degli antibiotici, armi preziose che hanno salvato, e continuano a salvare milioni di vite umane in varie occasioni, mai ci si era trovati di fronte a infezioni batteriche senza armi efficaci a combatterle, in una situazione quindi analoga a quella che si aveva in era pre-antibiotica.

 La cosa, che colpisce nella comparsa di questi nuovi agenti infettivi – siano essi batteri o nuovi microrganismi, o, come vedremo, nuovi virus – è la plasticità di questo mondo, la capacità che essi manifestano di essere soggetti a mutazioni.

Mutazioni sono, infatti, quelle batteriche in cui lo sviluppo delle resistenze è dovuto per lo più alla trasmissione di geni di resistenza che si sono formati come risultato di mutazioni spontanee, verificatesi nel corso di un’evoluzione di oltre 3 miliardi di anni, in un mondo microbico costituito da una moltitudine di microrganismi, della quale, noi medici conosciamo solo una piccolissima parte. Tali mutazioni si sono verificate nel contesto di una popolazione in rapida, impressionante crescita, se si pensa che bastano 8 ore di incubazione per riprodurre nei terreni di cultura da una sola cellula un numero di cellule superiori al numero di esseri umani che abitano il nostro pianeta. Da questo pool di resistenze disperse nella vastità del mondo microbico, in questi anni, per la selezione indotta dagli antibiotici sui microrganismi patogeni o commensali dell’uomo, o comunque a lui prossimi, i geni di resistenza si sono andati organizzando, sviluppandosi e diffondendosi, anche in rapporto alla pressione esercitata dall’uso eccessivo e spesso inappropriato degli antibiotici.

 E’ di questo dinamismo, di questa continua irrequietezza, di cui siamo fatti e che ci circonda, che dobbiamo renderci conto.

 Per capire meglio le cose del mondo abbiamo voluto affrontare i problemi che ci interessano riducendoli ai minimi termini. È questo l’essenza del riduzionismo che nella Scienza ha consentito di raggiungere dei risultati assai significativi. Però il riduzionismo può avere anche delle conseguenze negative: in quella fase di entusiasmi che abbiamo attraversato, abbiamo studiato le Malattie Infettive come fenomeni particolari e limitati ed abbiamo trascurato di vederle in una prospettiva più vasta, quella della Natura.

In Natura – come Darwin ci ha insegnato – la conservazione della vita delle specie esistenti avviene attraverso continui e mutevoli equilibri: le mutazioni assicurano la persistenza dei più forti, degli esseri cioè, che sono stati selezionati per sopravvivere. Ed è con questi concetti che bisogna vedere il mondo delle Malattie infettive, cioè il risultato di un processo evoluzionario di più ecosistemi, tre dei quali estremamente importanti: da una parte l’uomo con la sua intelligenza, con la sua cultura, con la sua tecnologia, con la sua mobilità, con le sue scoperte, da un’altra parte gli animali, riserve e vettori di microrganismi patogeni per l’uomo, e da un’altra parte ancora, il mondo variegato, multiforme, dei microrganismi.

Per molti anni questi mondi, questi ecosistemi sono stati lo scenario di una unica dominatrice: la selezione naturale. Essi stessi oggetto di questa selezione, fluttuavano immensamente: per un’epidemia di vaiolo negli anni 251-266 a.C., la popolazione era diminuita di 1/3; una catastrofe analoga si verificò con le epidemie di peste che dall’Asia arrivarono in Europa nei secoli XIII e XIV. Gli esseri che sopravvivevano erano i più forti; per il fatto stesso di continuare ad esistere avevano una specie di etichetta di garanzia: la garanzia che testimoniava la loro attuale prevalenza nella lotta per la vita. Nell’uomo di oggi questa garanzia non è più valida. Come risultato dei nostri magnifici progressi, le nostre popolazioni, cresciute in numero enormemente, sono più deboli. In noi non è più operativa la selezione naturale. Nel mondo dei microrganismi, invece, essa continua ad agire e a mostrarci minacciosa la strepitosa plasticità evolutiva del mondo microbico. Per il fatto di essere cresciuti in numero in maniera così importante, per il fatto di vivere in condizioni di affollamento, per il fatto che oggi si viaggia di più, un nuovo agente infettivo può diffondersi con maggiore rapidità e dovunque. Un problema inizialmente limitato può diventare di interesse globale. Nella lotta per la vita, che è divenuta assai più pericolosa di quanto fino a qualche anno fa si potesse immaginare, l’uomo, a differenza dei microrganismi, non ha più geni sensibili alla selezione naturale, che possano competere per plasticità e versatilità con quelli dei microrganismi. Egli si presenta da una parte, come un Re nudo, con minori difese, con armi sempre più spuntate, più bisognoso di assistenza ospedaliera, di pratiche invasive chirurgiche, da un’altra parte, sempre più esigente nelle sue esigenze di salute, e anche con la pericolosa propensione a viaggiare attraverso i continenti, vettore potenziale e, per lo più inconsapevole, di malattie, che finiscono così col perdere quelle connotazioni localistiche, che finora avevano caratterizzato molte di esse.

 Nel 1980, stimolati dalla evidenza di queste nuove infezioni vennero catalogati 87 nuovi microrganismi responsabili di quadri di infezione nell’uomo. Si vide che la maggioranza di essi erano dei virus, che avevano una distribuzione globale e che per lo più erano associati a serbatoi animali. La loro emergenza, come patogeni, avveniva attraverso stadi evolutivi successivi, in rapporto a variazioni ecologiche e soprattutto al modo in cui la popolazione interagiva con i serbatoi animali. Un altro elemento assai importante per darci conto di come la plasticità del mondo dei microrganismi si relaziona con l’ospite, è il fatto che la maggioranza di questi microrganismi erano virus a RNA, cioè virus con genoma costituito solo da Acido Ribonucleico. Questi virus, a differenza di quelli a DNA, cioè con un genoma costituito da acido Desossiribonucleico, hanno una maggiore propensione a mutazioni, cioè a sostituzioni nucleotidiche, per cui più facilmente tendono a modificarsi e ad adattarsi a nuovi ospiti. Tanto per avere un’idea dell’impatto che queste mutazioni possono avere, basta sapere che mentre il genoma della specie umana impiega 8 milioni di anni per evolvere o modificarsi solo in ragione dell’1%, molti virus animali a RNA possono evolvere più dell’1% nel giro di pochi giorni. Questa diversa sensibilità alla mutazione, questa facilità a sviluppare mutazioni in cicli replicativi così brevi, e quindi agli adattamenti, spiega perché è in continua crescita l’origine dei nuovi virus dagli animali.

 Abbiamo assistito a queste commistioni fra virus animali e virus umani, influenzate dalle mutazioni, nelle epidemie da virus influenzali. Sembra che i virus influenzali avessero avuto origine dagli uccelli acquatici, prima di essere trasmessi all’uomo. Solo nei tempi successivi si è avuta la trasmissione da uomo a uomo.

 Forse la stessa cosa può dirsi del Virus HIV. Infatti, la teoria che trova maggiori consensi sostiene che questo virus sia derivato da mutazioni genetiche di un virus che colpisce alcuni scimpanzé africani e che sia andato incontro a mutazioni progressive a partire del  1940, quando occasionalmente infettò l’uomo, e poi attraverso ulteriori mutazioni, dopo un periodo in cui sarebbe circolato in piccole comunità tribali, si sarebbe diffuso nell’Occidente ormai adattato a una trasmissione interumana, favorita dalla promiscuità sessuale, dalla tossicodipendenza e dall’impiego di trasfusioni di sangue infetto , o di suoi derivati.

 L’emergenza dei coronavirus nella Sars, nella Mers e nella epidemia da Covid19 ha un diverso profilo ma i principi sono simili. Tutti e tre le specie di virus ebbero origine nei pipistrelli. Nella Mers, dai pipistrelli si sarebbero trasmessi ai cammelli e poi dai cammelli agli uomini.  Nelle due forme di Sars, quella da Virus Sars1 e quella da Virus Sars 2, o Covid 19, l’emergenza sembra sia stata favorita dagli animali in vendita nei mercati per animali vivi, in cui l’affollamento eccessivo e la commistione esistente favorisce il passaggio da una specie all’altra, assai probabilmente nelle due Sars attraverso un passaggio prima che nell’uomo in un ospite intermedio. Nel caso del virus della Sars 1 sarebbe stato lo zibetto, un mammifero che può raggiungere il peso di 20 kg, che è assai apprezzato nella cucina cinese e che viene anche allevato perché produce una secrezione da cui si ottiene la sostanza odorosa costituente il muschio. Nel caso della Sars 2, da Covid 19, l’ospite intermedio sarebbe il pangolino, un mammifero, conosciuto anche come formichiere, che ha un manto coperto da squame, strapagate nei mercati cinesi perché ad esse sono attribuite proprietà salutari particolari.

Il passaggio da una specie animale ad un’altra viene chiamato spillover, un fenomeno che sembra si sia osservato anche con i virus dell’influenza aviaria, sia nelle epidemie da Virus Influenza H5N1 e sia  in quella da Virus Influenza H7N9.

Dobbiamo abituarci all’idea che la Natura, attenta a conservare i suoi ambiti di azione continuerà a proporci malattie infettive sempre nuove, come espressione della plasticità del mondo dei microrganismi. Le mutazioni, che esprimono questa plasticità, sono oggi, grazie ai progressi tecnologici, quali la Polymerase chain reaction, cioè la PCR, meglio individuabili.

Sono queste mutazioni che finiscono poi con l’essere responsabili di alcune caratteristiche dei microrganismi. Viene da pensare nel contesto di questa epidemia a quella influenzale del 1918, la famosa spagnola, una pandemia che causò oltre 50 milioni di morti. Si diffuse lentamente anche se globalmente, perché i mezzi di comunicazione erano assai limitati rispetto a quelli che abbiamo oggi. Ed ebbe poi una caratteristica che la differenzia dalla attuale da Covid, quella che colpì soprattutto le fasce d’età più giovani, mentre invece, mostrò una tendenza a risparmiare le fasce di età più avanzata, quasi come a fare ipotizzare che i soggetti più anziani avessero potuto contrarre già in precedenza una infezione da un virus influenzale capace di suscitare una produzione di anticorpi protettivi, una ulteriore testimonianza della varietà di virus influenzali responsabili di epidemie.

Le mutazioni sono anche responsabili delle variazioni nella virulenza dei ceppi. La letalità esprime la gravità delle manifestazioni cliniche che accompagnano la malattia. È indubbio che la pandemia del ’18 fu la più grave di quelle che la Storia ricordi. Dai risultati emersi dalle autopsie dei soggetti deceduti si vide che molte di quelle polmoniti non erano soltanto delle polmoniti virali, bensì delle broncopolmoniti, cioè dei casi in cui si era verificata una superinfezione batterica e Streptococcus pneumoniae e Staphylococcus aureus furono i microrganismi più incriminati. Eppure, già in quell’epidemia ci furono delle caratteristiche clinico-anatomo-patologiche che ricordano quella che in questi mesi è stata la sorpresa clinica più importante. Il quadro dello “cytokine storm”, della tempesta di citochine, cioè proteine – come dice Mantovani – che nel sistema immunitario si comportano come “parole”, ossia come segnali di comunicazione che anche a concentrazioni bassissime sono capaci di attivare risposte importanti in vari distretti corporei. Il risultato di questa tempesta è un quadro caratterizzato da atelettasie polmonari, da trombosi capillari multiple diffuse anche se più evidenti in ambito polmonare, responsabili di “Insufficienza respiratoria con ipossiemia”.

 È prevedibile che le varianti siano meno patogene? Perché si dice che perdono forza?

La selezione si verifica indipendentemente da un rapporto di maggiore o minore virulenza. Può succedere che a volte il ceppo che si seleziona sia più patogeno oppure che lo sia di meno. La Natura non persegue uno scopo e non è né ostile, né provvidenziale; agisce per caso. Certo non sarà la sua patogenicità a garantire la persistenza del virus. A farlo scomparire – e non sappiamo se del tutto o se solo in forma epidemica – sembra al momento che sarà la costituzione della immunità di gregge, che – si spera – si costituirà a conclusione di questa campagna vaccinale.

Intanto vale la pena di riflettere su quello che è stato.

Questa epidemia, tragica e disastrosa anche per le sue conseguenze, ancora una volta, ci ha ricordato:

  1. come noi uomini siamo sempre piccola cosa in questo vibratile e inquieto Universo;
  2. come sia importante mettere a frutto la nostra intelligenza e la cooperazione internazionale per l’avanzamento della Scienza e per fronteggiare le forze della Natura che confliggono con la nostra esistenza;
  3. come sia efficace l’educazione della popolazione a seguire i risultati della Scienza piuttosto che le insulse e pericolose affermazioni di un qualunque supponente fanatico;
  4. come la Medicina persegua l’alto impegno di tutelare la salute dell’Uomo





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