Quando il coronavirus ti entra nel cervello

La malattia COVID 19, causata dal coronavirus SARS CoV2, viene generalmente considerata una malattia delle vie respiratorie. Ed in realtà è la polmonite la malattia che generalmente si presenta nei pazienti infettati, così come è la trasmissione attraverso le vie aeree la modalità più frequente di contagio.

Purtroppo, è anche la polmonite la causa di morte nettamente più frequente in questa malattia virale.

L’attenzione dei medici si è quindi sempre rivolta a questa forma di malattia, la più evidente e talora drammatica.

DALLA SEMPLICE POLMONITE ALLA MALATTIA MULTIORGANO

Nel tempo, conoscendo meglio il coronavirus e le sue caratteristiche, si è però visto che la sua azione patogena non interessa solo l’apparato respiratorio, ma si può estendere anche ad altri organi come il cuore, il fegato, i reni, il sistema nervoso.

Uno dei sintomi precoci più conosciuti nella malattia COVID 19 è la perdita del gusto e soprattutto dell’olfatto. All’inizio si è creduto che questo sintomo fosse collegato alla infiammazione locale della mucosa della bocca (gusto) e delle cavità nasali (olfatto), come avviene in molte altre malattie. Non è inusuale, ad esempio, la perdita dell’olfatto durante un comune raffreddore o una sinusite.

Con il passare del tempo e con studi di imaging più perfezionati si è visto che ad esempio la perdita dell’olfatto non era sempre collegata ad infiammazione delle vie respiratorie naso faringee. SI poteva aveva infatti in pazienti con mucose normali. L’utilizzo di tecniche di risonanza magnetica molto accurate ha permesso di stabilire che in questi casi l’unico elemento patologico era costituito proprio nei recettori del sistema sensoriale; in particolare una regione del naso chiamata bulbo olfattorio, dove sono concentrate la maggior parte delle fibre nervose responsabili di questo senso, presentava caratteri tipici di infiammazione agli esami di risonanza.

Si è quindi ipotizzato che il coronavirus potesse attaccare anche i nervi ed il sistema nervoso in generale.

In realtà, fino ad oggi, questa ipotesi non è stata ancora confermata con dati scientifici certi. Il virus, ad esempio, non si riesce ad isolare nel liquor (quel liquido che circonda tutto il cervello e lo protegge dagli shock meccanici), come invece avviene per gran parte di virus e batteri responsabili di lesioni al sistema nervoso centrale.

Ed il virus non si riesce ad isolare neppure alle autopsie nei prelievi di tessuto cerebrale.

Probabilmente la attuale tecnologia non è ancora ottimizzata per l’identificazione di questo nuovo virus. L’ipotesi più probabile è che ci sia, ma non riusciamo a dimostrarlo con i test attuali.

Cosa ci conforta in questa ipotesi?

Certamente sia le osservazioni cliniche ed in particolare i quadri neurologici di molti pazienti, sia i risultati di molti esami di Risonanza Magnetica in cui si evidenziano lesioni infiammatorie o vascolari proprio in quelle aree del cervello correlabili ai sintomi che il paziente ha sviluppato.

Quindi il coronavirus può danneggiare anche le strutture nervose del nostro organismo?

Sembrerebbe proprio di si.

Se da una parte la perdita del gusto e dell’olfatto sono sintomi molto comuni e talora precoci della malattia, molti pazienti, dopo aver superato la fase acuta e con tamponi ormai negativizzati da tempo presentano stanchezza eccessiva, debolezza muscolare, confusione, agitazione ecc.

Non è raro il caso di familiari preoccupati per un congiunto guarito dal COVID 19 che ha comportamenti in casa non attesi.

Certamente non va sottovalutata la componente psichiatrica ed in particolare il cosiddetto disturbo post traumatico da stress. Svegliarsi dopo un mese di terapia intensiva in un reparto ad alto isolamento, magari a notevole distanza dall’ospedale cui ci si era rivolti primariamente, senza notizie della famiglia e con il personale sanitario a distanza e mascherato dai dispositivi di protezione individuale non è certo facile per nessuno.

Ma in molti pazienti il disturbo di comportamento è anche legato a lesioni residue sul sistema nervoso centrale che possono essere documentate con accurati esami di imaging.

GLI STUDI RECENTI

In Italia uno degli studi più interessanti sulle complicanze neurologiche da COVID 19 è stato effettuato a Bergamo. Di circa 2000 pazienti esaminati quasi il 10% presentava clinicamente dei segni neurologici significativi come alterazione dello stato mentale, cefalea, convulsioni, disordini dei movimenti fino a quadri più gravi come ictus ischemici o emorragici.

Uno studio francese confermava più o meno gli stessi dati, con una valutazione di maggiore gravità nei pazienti ricoverati per lungo tempo in reparti di terapia intensiva.

Altri studi sono stati pubblicati su prestigiose riviste scientifiche con pazienti analizzati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti con risultati più o meno sovrapponibili.

In tutti i casi la conferma del sintomo neurologico sviluppato durante o dopo la malattia COVID 19 si è avuta solo con esami mirati di Risonanza Magnetica, effettuati con apparecchiature e tecniche molto sofisticate.

QUALE TERAPIA?

Sul nuovo coronavirus ancora conosciamo poco e soprattutto non abbiamo ancora evidenze scientifiche della efficacia di un trattamento ad infezione in atto. L’unica arma in nostro possesso è la prevenzione con il distanziamento sociale e l’immunità da vaccino.

Le lesioni neurologiche da coronavirus, quando presenti, non hanno quindi una terapia specifica universalmente riconosciuta e certa.

La banale anosmia può perdurare per mesi e mettere anche in seria difficoltà il paziente (ad esempio non è in grado di riconoscere un ambiente in cui ci sia una perdita di gas!). In molti centri di assistenza ai malati post COVID 19 si stanno ad esempio attuando tecniche di rieducazione all’olfatto, che sembrano essere efficaci nel ritorno alla normalità.

Quando il quadro neurologico non è causato da una lesione organica importante, ad esempio un danno ischemico o emorragico su un discreto volume di tessuto cerebrale, la probabilità di una guarigione completa sembra comunque molto elevata. I tempi di recupero sono molto lunghi, sicuramente maggiori di tante altre malattie virali che conosciamo, ma in molti casi è viva la speranza che tutto possa tornare come prima. Questo è anche avvalorato dalla progressiva riduzione delle lesioni visibili agli esami diagnostici. Non ci resta che attendere!

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