I superstiti delle generazioni COVID

Delle tre fasce generazionali, i giovani, gli adulti e gli anziani, non c’è dubbio che la prima e la terza sono quelle che maggiormente hanno subito l’impatto del virus Corona.

La movida che continua, nonostante gli appelli delle varie autorità, è la testimonianza che la “generazione di mezzo” ossia gli attuali giovani hanno avvertito in minor misura il dramma Covid. Non solo e, forse, non tanto per le statistiche di mortalità che li vedono nelle porzioni basse di questa triste classifica, ma soprattutto per l’evidente minore impatto psicologico che esso ha avuto sia sulle abitudini di vita consociativa sia per l’aver sostituito discrete quote delle attività lavorative e di studio frontali con “attività da remoto”.

La terza generazione, alla quale appartengo,ossia gli anziani sarà superstite non solo con l’80% di mortalità delle casistiche Covid, ma soprattutto con la percezione di essere “persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese” (copyright Giovanni Toti), che ci viene dal mondo esterno. E senza tener conto che “Stare a casa ammazza come il virus” (copyright Bernabei del CTS). E’ evidente che, per motivazioni anagrafiche, questa quota di superstiti andrà naturalmente assottigliandosi man mano fino a far cessare il problema.

A parte rimane la fascia dei più giovani, di quelli cioè che sono nella fase di apprendimento, sia del sapere culturale e professionale, sia delle modalità di vita sociale e dell’interfacciarsi con gli “altri” per costruire sé stessi, apprendimento quest’ultimo che non può in alcun modo essere sostituito dalla DAD (didattica a distanza). Quale sarà l’impatto degli avvenimenti di questo tempo sui nostri giovani e giovanissimi? Superstiti per essere orfani di scuole ed università, come vivranno la loro vita? Non lo possiamo ancora sapere, ma è un’incognita che può fare paura. E’ evidente che, se c’è qualche rischio che bisogna correre, il riaprire il prima possibile le scuole di ogni ordine e grado è uno di quelli: è troppo grande la probabilità (certezza?) di ferite psicologiche profonde sui nostri ragazzi. Il valore didattico e formativo del “gioco” è acquisizione più che consolidata, ma non c’è gioco se non c’è consociazione, se non c’è scuola come luogo di incontro prima ancora che come luogo di nozioni. La gioia dell’infanzia non può prescindere dal “giocare insieme”. La spensieratezza baldanzosa e vivace degli adolescenti non può realizzarsi senza i luoghi canonici dei licei e delle università. La generazione di giovani che ha vissuto un altro periodo drammatico della nostra storia, la seconda guerra mondiale ed il suo dopoguerra, è stata poi  capace di realizzare il “miracolo economico italiano”,  possiamo sempre sperare nei corsi e ricorsi storici di G.B. Vico. Ma facciamo in modo che ciò accada con più certezza, non lasciamo indietro i nostri giovani. In sicurezza e con le dovute precauzioni ,riapriamo le nostre scuole, con o senza le rotelle ai banchi, ma riapriamole.

Post scriptum: In morte da Covid

Il dolore lenisce l’anima, l’angoscia no.

Morire di Covid rientra nelle umane cose, il chiudersi di una vita è la conclusione naturale che accompagna la nostra storia. Ma perché accompagnarla all’angoscia, non solo di non poter vedere ed abbracciare i propri cari nelle terapie intensive,  che è comprensibile, ma di non avere notizie, di non sapere come va la battaglia per la vita di colui/colei che ci sta a cuore se non attraverso, ed a volte con difficoltà, la buona volontà occcasionale di medici od infermieri impegnati a fronteggiare l’ondata della pandemia.

E’ una questione di umanità, di civiltà, di rispetto della persona umana, di quella che soffre e di quella che è in ansia.

Un numero verde, una tecnologia di immagini, una predisposizione, una qualche modesta semplice organizzazione che consenta di partecipare anche se da lontano, anche se solo una volta al giorno, alla lotta ed alle sofferenze dei nostri cari.

Per un dolore senza angoscia.

Laparoscopia: una vittima (illustre) della pandemia

E così ci siamo di nuovo. Ci eravamo illusi, doppiamente illusi: che il brutto era passato e che, comunque, la lezione era servita ed i provvedimenti adeguati presi. Ma appunto ci eravamo illusi.

Senza dubbio le conseguenze maggiori di quanto sta accadendo, nel mondo ed in Italia, ricadono e ricadranno sui nostri figli e nipoti, privati di due anni (se va bene) di adolescenza e, soprattutto, di scuola con tutto quello che comporta di apprendimento e di socialità.

Ma c’è un’altra vittima illustre, anche se in misura minore e con le doverose differenze. Eravamo tutti pronti a celebrare, con gioia ed entusiasmo, il trentesimo anniversario dell’inizio dell’era laparoscopica in Italia. Ma, insieme a tante altre cose, è stato rimandato ad un futuro ancora incerto.

Trent’anni fa la chirurgia laparoscopica muoveva i suoi primi passi nel nostro Paese, dando inizio ad una rivoluzione metodologica e concettuale che si può paragonare solo all’avvento della anestesia.

Era stato Muhe ad eseguire la prima colecistectomia laparoscopica nel 1985, ma è stato Philip Mouret, nel 1987, che la ha fatta sbarcare negli USA e nel mondo, ripetendo in qualche modo la storia del vichingo Erickson e di Cristoforo Colombo. Nel 1988 cominciarono gli animal lab laparoscopici che si diffusero con entusiasmo incontenibile da una costa all’altra degli USA. Nel 1989 la collap veniva consacrata all’American College of Surgeons.

Ed eccoci al 1990. In Italia si stavano svolgendo i campionati del mondo di calcio ma a Roma, Napoli, Milano e Torino la chirurgia laparoscopica muoveva i suoi primi passi. (Fig.1). La prima colecistectomia effettuata a Roma fu seguita in live surgery da una aula Stefanini stracolma di gente. ”Neanche ai tempi di Stefanini ho visto tanta gente”, non potrò mai dimenticare il commento del bidello dell’aula. In breve numerosi altri centri seguirono in ogni parte d’Italia. Nei primi mesi del 1991, sull’onda dell’entusiasmo venne fondata la SICE, Società Italiana Chirurgia Endoscopica, fondatori L.Angelini, N.Basso, S.Mancuso e R.Marana, primo Presidente Francesco Morino ed io stesso come segretario.

Quello stesso anno e sempre a Roma si svolse il primo Corso Convegno Internazionale SICE ed alla colecistectomia si affiancarono vari e più complessi interventi: fundusplicatio, TEM, colectomia dx, isterectomia. La laparoscopia dimostrava che era in grado di affrontare e risolvere problemi di grande complessità tecnica. Alla compliance dei chirurghi si affiancò (forse anche in grado maggiore) la compliance dei pazienti. Tutti volevano la chirurgia dei buchini, la key hole surgery.  Non è più “grande taglio, grande chirurgo.

La laparoscopia fa cambiare anche la tipologia delle liste operatorie nelle nostre sale chirurgiche, raddoppia il numero delle colecistectomie, quadruplica il numero delle fundus plicatio, ma è soprattutto la chirurgia bariatrica che ha una vera e propria esplosione: aumenta di dieci volte anche per la concomitante messa a punto di una tecnica di semplice esecuzione quale il bendaggio gastrico.

Nascono i primi registri delle casistiche laparoscopiche, in particolare quello della chirurgia colo-rettale, che testimoniano la capillare diffusione di queste nuove tecniche.

Arriva il 2000. La laparoscopia in dieci anni ha messo a segno una serie di record: iniziata nel 1987 dopo solo 3 anni e senza aspettare, come di norma, i risultati di studi randomizzati e controllati (mai accaduto prima) è ufficialmente approvata dalla FDA americana come terapia di elezione della colecistectomia; è il gold standard terapeutico di numerose patologie dal surrene alla milza ed altro ancora; gli interventi affrontati diventano sempre più complessi: gastrectomie, resezioni epatiche, interventi sul pancreas.

Nel 2001 Marescaux manovra da NYC un robot situato a Strasburgo e fa la prima colecistectomia trans oceanica. Con la “Lindberg operation” parte la chirurgia robotica. Nel 2001 sempre a NYC inizia con M. Gagner l’odissea nella chirurgia bariatrica della sleeve gastrectomy, che nel giro di pochissimi anni diventa l’intervento bariatrico più eseguito al mondo. In Italia, con il mio gruppo, portiamo nel 2002 le prime sleeve che rapidamente diventano per noi l’intervento di scelta nella chirurgia degli obesi.

Alla chirurgia laparoscopica sono debitore di tanti anni di vita professionale entusiasmante ed eccitante, ma sono debitore anche di un particolare e splendido dono: proprio per essa ho incontrato (sul letto operatorio) e poi portato all’altare Paola, moglie e madre degli ultimi miei due figli.

Nel 2004 il Santo Padre proclama S.Sebastiano patrono dei chirurghi laparoscopisti. Nel 2009 un afro americano diventa presidente degli USA e nel 2014 il cardinale Bergoglio, novello  Francesco, augura al mondo “Buona sera” dal balcone di S.Pietro. Ed arriva il 2020, doveva essere per noi laparoscopisti e per la chirurgia italiana tutta un anno di lieta celebrazione. E’ diventato un “annus horribilis”. Duecento colleghi, profondamente votati alla loro missione fino al supremo sacrificio, sono rimasti vittime del Covid. E’ la più alta percentuale al mondo di medici deceduti per il maledetto corona virus.

Ma ce la faremo anche questa volta e la straordinaria resilienza di quanti hanno cantato dai balconi, di quanti hanno esposto il tricolore alle finestre ne è la più sicura testimonianza.

Laparotomia vs laparoscopia: due storie diverse? No. Stessa storia, stessa arte, solo due prospettive diverse.

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