Stitichezza o diarrea persistente, flatulenza, gonfiore e dolore addominale sono alcuni dei sintomi, a volte molto compromettenti per la qualità della vita che accusa chi soffre di sindrome del colon irritabile.
Esistono differenti ipotesi sulla causa della condizione, con ruoli importanti attribuiti ad infezioni dell’intestino, anomalie della motilità intestinale, stress e altri fattori. Tuttavia, non esistono né criteri diagnostici ben definiti né protocolli relativi al trattamento che, dal punto di vista medico, spesso consiste nell’utilizzo di antispasmodici o antidepressivi, con risultati relativamente modesti e effetti collaterali non trascurabili.
Poiché le cause di questa fastidiosa condizione sono ancora oscure, l’unico strumento nelle nostre mani è l’adozione di strategie che possano favorire la remissione o l’affievolirsi dei sintomi. Negli ultimi anni molti studi si sono concentrati nel valutare l’efficacia di interventi dietetici nel ridurre i sintomi della sindrome del colon irritabile: in particolar modo l’attenzione si è concentrata su diete low FODMAP.
La dieta low FODMAP è stata proposta per la prima volta come terapia dell’IBS nel 2001, da alcuni ricercatori australiani dell’università di Melbourne. FODMAP è l’acronimo di “Fermentabili Oligo-, Di- e Mono-saccaridi e Polioli” (Fermentable Oligosaccharides, Disaccharides, Monosaccharides and Polyols). In termini più comuni, i FODMAPs sono sostanze che hanno tre caratteristiche in comune. Esse sono:
I batteri del colon digeriscono questi zuccheri formando vari gas tra cui idrogeno e metano. Si tratta di un processo del tutto normale e che nella maggior parte dei soggetti non produce alcun fastidio: in alcuni pazienti con sindrome del colon irritabile il fenomeno pare essere eccessivo e quindi in grado di determinare i fastidi riportati.
Le molecole FODMAP altro non sono che carboidrati a corta catena, quali lattosio, fruttosio, fruttani, galattani e polialcoli.
Secondo la teoria dei FODMAP limitando tali nutrienti si riducono i sintomi almeno nei tre quarti dei pazienti. Nella prima fase si eliminano totalmente i cibi ricchi di FODMAP, che vengono poi reintrodotti gradualmente al fine di capire quali e in quale quantità sono implicati nei disturbi descritti. Si tratta di una dieta che non può essere improvvisata e deve essere seguita secondo le indicazioni di un professionista che fornisce al soggetto informazioni dettagliate sui cibi da evitare completamente, su quelli da consumare con attenzione e su quelli che è invece possibile consumare liberamente.
Se nel corso della dieta si è verificata una riduzione dei disturbi, dopo un periodo che va dalle 2 alle 6 settimane, si potrà cominciare a reinserire in maniera attentamente controllata i vari alimenti ricchi di FODMAP: lo scopo è di determinare quali cibi, in quali quantità e con quale frequenza di consumo, siano in grado di scatenare i sintomi.
Ovviamente, la dieta low FODMAP non è una panacea per la cura dell’IBS. Si tratta piuttosto di un regime alimentare il cui fine è di ridurre i sintomi. Ha mostrato una buona efficacia. Oltre il 75% dei soggetti che la seguono registra decisi miglioramenti e, dopo la fase di reintroduzione, spesso permette di alzare la soglia di tolleranza nei confronti di cibi scatenanti.
La dieta low FODMAP è una possibile via da tentare per chi racconta spesso gonfiori, dolori addominali, intestino irregolare che non sia stato in grado di identificare una causa precisa per tali problemi.
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