L’arrivo della prima pandemia globale del XXI secolo ha avuto e continuerà ad avere per un tempo ancora indefinito conseguenze drammatiche e spaesanti per tutti gli esseri umani. Un vero e proprio ciclone che ha trasformato il tempo e lo spazio, la capacità di riflessione e di interpretazione, che ha caricato di informazioni il sistema biologico ed il sistema sociale.
Il lavoro, il tempo libero, la vita quotidiana, la ricerca scientifica, il sistema delle cure, tutto si è improvvisamente modificato, alterato, in un confuso orizzonte in cui gli ambulatori, gli ospedali e i laboratori di ricerca sono diventati il centro dell’emergenza in un inedito rapporto fra medicina e sanità, in una relazione complessa e interdipendente.
Non solo, in questo alterato orizzonte, il costante flusso di un newsmaking, assetato di dataismo, di risposte immediate, Hict et Nunc, ha sollecitato e imbrigliato spesso il pensiero, quasi soffocato una riflessione ragionevolmente pensata, nel senso etimologico del pesare, ossia giudicare, sul Noi che avrebbe potuto invece tingere il mondo di un vivace colore soggettivo per ritrovare quei fili immaginari che tengono insieme l’umanità, oltre l’espressione un po’ superficiale del “tutto andrà bene”.
Un sistema di risposte probabilmente e psicologicamente comprensibile: di fronte a malattie più o meno “misteriose” o “sconosciute” dal punto di vista eziologico, gli individui provano ad individuare delle scorciatoie cognitive per comprenderle e interpretarle sulla base delle poche informazioni disponibili.
Ma questo atteggiamento non è di aiuto. Laddove si esamina il problema, la ricerca non può prendere avvio da un’asserzione osservativa ma da una situazione problematica in cui, come osservava Popper, si palesa quella lotta fra la natura che non si stanca di produrre e la ragione che non vuole stancarsi di capire. E questa consapevolezza è forse mancata ed è mancata quell’austera sensibilità verso l’essere umano, verso chi è impegnato nella ricerca, quasi un vero e proprio oblio di quell’idea originaria di eterno ritorno in cui si potessero vedere o, forse, intravedere, i fatti in maniera diversa da come sembrano o da come vorremmo che fossero.
E’ vero la pandemia attuale è un fardello pesante, come forse avrebbe potuto dire Nietzsche, ma la risposta della vita umana deve essere pensata nella meraviglia della vita, nella protezione della unicità della vita stessa e nella consapevolezza di una visione più prudente del progresso, ossia in una operazione intellettuale in cui il problema della quantità (dei contagiati) e della qualità (delle cure) sia affrontato nella sua complessità.
In questo contesto, la quantità e la qualità svolgono una parte di primo piano per quanto riguarda il sistema della prevenzione e della cura ma, al tempo stesso, dovrebbero far riflettere sulle difficoltà nella selezione delle idee e nelle possibili piste di ricerca.
Di idee nuove o più o meno nuove ne sono nate tante nella vertigine della fabbricazione della notizie e delle speranze, poche, però, sono state quelle buone per la soluzione dei problemi. E, le idee hanno bisogno di risorse, di investimenti nella sanità e nel sistema universitario. Il nostro paese spende male le sue risorse e in maniera diseguale e tale situazione ha reso i sistemi sanitari, i sistemi della formazione e della ricerca, non solo in ambito medico e sanitario, estremamente fragili.
E nel vortice della pandemia molte fragilità sono così diventate più visibili, altre sembrano essersi nascoste, e la medicina, come sistema complesso di più scienze, dovrebbe velocemente avviarsi verso una epoca nuova, come aveva in maniera forse profetica anticipato qualche anno fa Daniel Callahan, ossia verso il tempo della medicina sostenibile, possibile risposta alla lotta alle fragilità.
La realizzazione di una medicina sostenibile va probabilmente pensata in due distinti direttrici. Una è quella della prevenzione, della promozione della salute, del ruolo preminente della sanità pubblica. E qui si osserva come il nostro paese non avesse un piano aggiornato al rischio di una pandemia e abbia sistematicamente dimenticato un sostanziale investimento nella sanità pubblica. L’altra, in parte anche il risultato della prima direttrice, è quella della responsabilità personale degli esseri umani nei confronti della salute. Una consapevolezza della responsabilità in cui vi sia una visione più prudente del progresso, una valutazione realistica delle possibilità offerte della ricerca scientifica, e, contemporaneamente, vi sia un ritorno all’idea della centralità, oltre le rigidità economicistiche, del sistema delle cure di prossimità.
La medicina non è una scienza esatta, anzi non è un sistema di più scienze esatte e nessuna scienza è esatta. La storia delle scienze, di tutte le scienze, è fatta di esperienze, ossia di errori. E, in realtà, evitare l’errore o, peggio, nascondere gli errori è un ideale meschino e se ci si confronta con un problema complesso, come l’attuale pandemia, è facile produrre errori ed è indispensabile condividere l’esperienza dell’errore.
Questo vuol dire che l’errore, quale che sia, è al centro del metodo scientifico poiché, come ha osservato Popper, si inciampa in un problema; si tenta di risolvere il problema, proponendo qualche nuova teoria; si impara dagli errori, specialmente da quelli che si sono resi presenti dalla discussione critica dai tentativi di risoluzione. Questa concezione del metodo scientifico richiede consapevolezza della responsabilità, prudenza, realismo, e, soprattutto, una visione della fallibilità della ricerca.
Dalle recenti esperienze si dovrebbe ripensare il rapporto con quelle che l’OMS ha chiamato le nuove minacce per la salute nel XXI secolo, rischi di origine naturale, ambientale, tecnologica e, soprattutto, umana, derivanti cioè dalle scelte degli esseri umani e delle istituzioni sociali.
Sono segnali chiari della riflessività delle società contemporanee costantemente chiamate ad affrontare i rischi economici, sociali, politici, e morali, generati dall’azione dell’essere umano nella sua incessante ricerca di sicurezza. E anche la loro rapida diffusione e la gravità dell’impatto sono l’esito di processi antropici e, in particolare, dei processi di mondializzazione, dell’accresciuta mobilità e dei cambiamenti nello stile di vita degli individui.
Un orizzonte complesso in cui il rapporto natura cultura è sempre più complesso, articolato, in cui il contributo delle scienze sociali può favorire quella sostenibilità verso l’essere umano. In una prospettiva d’insieme il tema riguarda direttamente la politica poiché se non si vuole che il passato divori il futuro occorre modificare urgentemente il modello di spesa pubblica rinunciando a quelle strade che solo apparentemente hanno protetto gli individui, come, ad esempio e non solo, nello sciagurato caso del reddito di cittadinanza, e che invece hanno ulteriormente ridotto la possibilità di investimenti nel welfare, nel sistema delle cure, della ricerca e della formazione, ossia della possibilità del cambiamento.
Un ritorno in qualche modo epistemologico alla cura delle persone, nel senso più autentico del termine. E tale orizzonte è certamente quello in cui si muove la ricerca scientifica sin dai tempi di Murri.
Eppure, mai come in questi ultimi mesi, ho potuto osservare come il tema del metodo, della discussione sul metodo sia scivolata nell’oblio, immersa nelle dirette televisive e nel flusso costante delle notizie prodotte nei social network, quasi che il metodo, l’idea stessa di scienza, possa essere vista come un accessorio.
Forse (anche) chi si occupa di comunicazione dovrebbe ricordare che la conoscenza, lo studio della scienza, non dovrebbe produrre vertigini ma evitare la confusione fra scienza e pseudoscienza, fra fatti e fattoidi. E per chi si occupa di politica che vi è una grande differenza fra il prendersi cura (di un problema) e l’annuncio della cura senza una correlazione fra la pratica e la teoria soggiacente.
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