Covid in Africa: l’esperienza sul campo

“La sofferenza degli Africani non è solo che sono poveri
e che i bianchi sono ricchi,
ma che le leggi fatte dai bianchi
tendono a perpetuare questa situazione”.

Nelson Mandela


L’Africa va considerata semplicemente come un luogo disperato, patria di malattie incurabili, odi incomprensibili e problemi irrisolvibili?

Chi ha visitato molti Paesi africani e non per turismo, sa che la risposta è “no” e che occorre andare oltre i luoghi comuni.

Forse abbiamo dimenticato troppo in fretta i nostri passati legami con questo continente: i 10 milioni di schiavi, i furti di oggetti d’arte, di risorse geominerarie e umane. Il commercio degli schiavi, in particolare, non solo uccise e privò della loro umanità milioni di persone, ma distorse in maniera irreversibile lo sviluppo della civiltà africana: famiglie intere furono disperse e numerose società andarono in rovina, aprendo in tal modo le porte all’invasione e alla colonizzazione europea del continente. Tra le molte situazioni “dimenticate” della storia africana, ce ne sono due in particolare. La prima è che nel passato del continente sono esistite culture ricche e diverse come i grandi imperi del Mali e degli Ashanti. All’epoca del loro primo contatto con gli europei, molte di queste culture erano avanzate quanto quelle dei colonizzatori che arrivavano in quei luoghi. La seconda è che il periodo di dominio coloniale è recente ed è stato di breve durata.

La folle “corsa all’Africa” cominciò infatti solo negli anni ottanta del milleottocento, quando l’Europa si impadronì del continente. Dal novembre 1884 al febbraio 1885, nella Conferenza di Berlino, i rappresentanti delle principali potenze europee si spartirono le terre d’Africa, regolando le contese a tavolino e stabilendo che, onde evitare contestazioni, le porzioni rivendicate venissero sottoposte a controllo militare. Così, dal 1890 al 1900, con ulteriori conquiste territoriali e l’installazione di personale armato, l’insieme del continente passò sotto la dominazione di Francia, Regno Unito, Belgio, Germania e, in misura minore, Spagna e Italia.

Nell’arco di tre generazioni, le potenze coloniali furono costrette ad andarsene. Il Ghana ha conquistato l’indipendenza nel 1957, la Guinea nel 1958 e la Nigeria nel 1960. La conseguenza fu una serie di “Paesi” creati arbitrariamente secondo le convenienze degli europei e in parte degli Stati Uniti d’America. Le assurde linee rette o curve, che troviamo sulle carte geografiche, mostrano come i confini furono stabiliti dove si scontravano le potenze coloniali, separando gruppi etnici, linguistici e politici, il cui concetto di “nazionalità” era molto diverso dal nostro.

Purtroppo l’Africa non è riuscita a svilupparsi come avrebbe meritato, perché negli anni sessanta e settanta del secolo scorso furono gli “esperti” occidentali a consigliare ai paesi africani le politiche che li avrebbero portati alla catastrofe. Negli anni settanta la crescita dell’Africa si era fermata. I paesi africani diventavano sempre più poveri. Tra il 1975 e il 2005 il PIL pro capite diminuì del 15% e le esportazioni si ridussero della metà a causa del crollo dei prezzi delle materie prime. Gli investimenti stranieri nel continente precipitarono dal 4-6% allo 0,6% del totale mondiale. L’ottimismo dell’indipendenza politica cedette il posto all’amarezza della dipendenza economica dagli aiuti stranieri. Eppure alcuni paesi hanno dimostrato che sono in grado di crescere, ad esempio il Ghana, il Botswana, la Costa d’Avorio, l’Uganda, lo Zimbabwe, il Sudafrica. In Africa si stavano introducendo, seppur con fatica, le moderne tecnologie scientifiche che avrebbero potuto aiutare alcuni paesi ad avviare un futuro migliore nella misura in cui avessero avuto la capacità di appropriarsene senza più bisogno di esperti stranieri inviati dai vari governi occidentali, come “consiglieri”

Quando l’economia va male e i governi decidono di tagliare le spese, sanità e istruzione sono di solito le prime a pagare. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) è stato ribattezzato da molti medici africani “Fondo Mortalità Infantile” poiché affermano che dopo le visite del FMI i bambini dei loro paesi cominciano a morire.

La crisi economica e le politiche imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale (BM), hanno prodotto sul piano socio-sanitario un effetto perverso: adesso la gente deve pagare per cure che un tempo, tutto sommato, riceveva gratuitamente. Nessuno è esente, anche nei casi più gravi. Così molte persone ricorrono alla medicina tradizionale, un contesto medico molto rischioso, costituito in gran parte da ciarlatani e, in maniera molto limitata, da qualche vecchio guaritore onesto.

Qual è stato l’impatto del Covid-19 in Africa?

Qual è il motivo per cui apparentemente in Africa l’impatto del Covid-19 è stato minore rispetto all’Europa e alle Americhe, oltre che all’Asia? E l’altra domanda è: siamo sicuri che l’impatto sia stato minore? Abbiamo la certezza che i paesi africani siano in grado di realizzare quel tracciamento che noi stessi in Europa abbiamo difficoltà ad avere?

Intanto occorre sottolineare che quando si parla di Africa ci si riferisce a 54 Stati diversi per substrato sociale, culturale, economico e sanitario.

Il primo caso di Covid-19 del continente africano sarebbe stato segnalato in Egitto a febbraio nel 2020 ossia simultaneamente all’inizio della pandemia in Italia ed in Europa. Poi la diffusione e l’incremento dei casi è stato ubiquitario, con particolare riguardo oltre che all’Egitto, al Marocco, all’Algeria, all’Etiopia, al Kenya, alla Nigeria, al Ghana, al Sudafrica. La massima espansione sarebbe stata segnalata negli Stati meridionali e da questi o meglio dal Sudafrica è partita la variante beta del SARS-CoV-2 a dicembre 2020. Inoltre a giugno 2021 solo l’1% delle dosi di vaccino sin allora rese disponibili al mondo era stata distribuita in Africa.

Il primo aspetto che sembra differenziare l’Africa dall’Europa è l’età media della popolazione africana che potrebbe aver giocato un ruolo protettivo: il 60% degli abitanti del continente, oltre un miliardo e 300 milioni infatti, ha meno di 25 anni (quasi la metà dell’età media italiana). In Italia 23 persone su 100 hanno più di 65 anni e l’età media è di oltre 47 anni. Questa differenza è evidente anche osservando il  numero di contagi e decessi: in Italia siamo a quota 5.064.718 di casi da inizio pandemia, e 137.247 decessi. In Africa le persone contagiate sono 9.751.702 al 2 gennaio 2022 con oltre 228.000 decessi.

Non è un mistero che i decessi si registrino, quando ciò è possibile, principalmente nelle fasce più alte di età.

In secondo luogo, una certa dose di protezione potrebbe derivare paradossalmente dall’ampia diffusione di malattie infettive che determinerebbero una sorta di immunizzazione indiretta, contro il SARS-CoV-2.

Inoltre anche se il numero ufficiale di decessi e di casi di Covid-19 rimane contenuto, il numero degli individui che hanno contratto la malattia, paucisintomatici o asintomatici, è certamente molto più alta.

L’alta incidenza di tubercolosi, HIV, Ebola e Poliomielite in vari Paesi africani ha consentito di formare personale sanitario capace a gestire le epidemie e fatto in modo che quelle poche infrastrutture già in uso contro altre infezioni venissero sfruttate per il Covid-19. In Sudafrica, la rete di contact tracing allestita contro la tubercolosi è stata infatti riutilizzata per rintracciare i casi di CoViD-19.

Nonostante la prima ondata non sia stata devastante come si temeva, 34 dei 54 Paesi africani hanno dovuto imporre periodi di lockdown che hanno drammaticamente peggiorato la salute delle persone affette da altre malattie endemiche che non potevano essere curate a causa delle chiusure.  Nel Sudafrica, lo Stato dell’Africa più colpito dai contagi, o forse solo più capace di registrarli, sono stati messi in campo 28.000 operatori sanitari soltanto per eseguire tamponi. Nel Paese in cui 7,7 milioni di persone sono sieropositive e in cui ci sono 520 casi di tubercolosi ogni 100.000 abitanti, si temeva che il coronavirus facesse una strage tra i malati immunodepressi, ma dopo la fase più critica la curva pandemica è tornata sotto controllo. 

Il punto debole nella lotta africana al coronavirus resta la capacità di test e la disponibilità di vaccini.  nche se i decessi per Covid-19 sono apparentemente rimaste basse, in Africa preoccupano le conseguenze del sovraccarico dei pochi sistemi sanitari sulle altre malattie epidemiche, come HIV, tubercolosi e malaria. I conti della mancata cura o prevenzione di queste infezioni si presentano in ritardo: se una persona non riesce ad accedere alle cure antiretrovirali a causa della pandemia, non muore subito, ma qualche mese più tardi. Nel 2014, alle 11.300 morti per Ebola, si sommarono 10.600 decessi in eccesso per altre malattie, soprattutto tubercolosi e malaria, visto che il Covid-19 ha ridotto e in alcuni casi bloccato per mesi le vaccinazioni di massa, incluse quelle contro malaria e tbc. Il rischio è di assistere nei prossimi mesi a un aumento delle morti per cause non correlate al Covid-19.

Ma perché l’Africa sembra un terreno di colture per germi, batteri e virus? Perché così tante epidemie in Africa?

C’è più di un motivo se epidemie e pandemie trovano un terreno di coltura così drammaticamente diffuso in Africa.

Il SARS-CoV-2 ha avuto origine in Cina nella regione dell’Hubei e da lì ha cominciato la sua corsa a infettare tutti gli angoli del pianeta. Non è una novità: solo negli ultimi 20 anni ci sono state tre diverse epidemie di una qualche variante di coronavirus, e il tempo che trascorre tra una e la successiva si fa sempre più breve.

In Africa, dove vivono oltre mille trecento milioni di abitanti, sta andando incontro in questi anni a un rapidissimo processo di urbanizzazione. Urbanizzazione significa anche deforestazione e distruzione dell’habitat: questo spinge gli animali selvatici, privati delle loro case, ad avvicinarsi sempre di più ai centri urbani. E gli animali selvatici, come i pipistrelli sono ospiti perfetti per i virus, alcuni dei quali possono “saltare” l’ospite e passare agli esseri umani. Non solo: le prime vittime dell’urbanizzazione spinta sono i predatori, e la loro scomparsa permette ai roditori, cioè altri ospiti ideali per virus zoonotici, di moltiplicarsi. La situazione non può che peggiorare, visto che l’urbanizzazione in Africa non accenna a rallentare. È solo questione di tempo prima che un altro coronavirus, o un altro virus, esploda in queste regioni e si diffonda al resto del mondo. C’è urgente bisogno di strategie contro la deforestazione e l’inquinamento ambientale che riducano il contatto tra uomo e animali selvatici.

Vaccini in Africa? Un sogno

Secondo i dati dell’OMS solo il 3% degli oltre 9 miliardi di dosi somministrate a livello globale è stato somministrato in Africa e solo l’8% circa degli africani è completamente vaccinato, rispetto a oltre il 60% in molti paesi ad alto reddito.

Il Botswana è uno dei sei paesi africani a raggiungere l’obiettivo globale dell’OMS di vaccinare completamente almeno il 40% della sua popolazione entro la fine di dicembre 2021.

L’Etiopia, che ha utilizzato l’80% dei suoi vaccini disponibili, ha utilizzato un sistema di logistica inversa per riportare le dosi di vaccino dalle aree in cui erano sottoutilizzate e ridistribuirle in aree con maggiore domanda, evitando così la scadenza di dosi preziose.

In Ghana, oltre all’attenzione rivolta alla protezione degli anziani, è stata data priorità alla vaccinazione delle popolazioni in base alla vulnerabilità e ai potenziali rischi di esposizione sul lavoro. Una buona pianificazione ha anche aiutato il paese a utilizzare strumenti innovativi, come i droni, per raggiungere comunità lontane.

Ma fondi e materie prime limitati frenano drammaticamente l’Africa che deve affrontare un deficit di 1,3 miliardi di dollari per i costi operativi, tra cui la logistica della catena del freddo e i costi di viaggio e il pagamento per vaccinatori e supervisori, nonché un’incombente carenza di siringhe e altri prodotti cruciali che i Paesi ricchi non hanno alcuna intenzione di donare.

Molte sfide potrebbero essere affrontate meglio con finanziamenti affidabili, compresa la formazione dei vaccinatori e la garanzia di personale di supporto sufficiente, il miglioramento del software per l’acquisizione dei dati e la garanzia che ogni Paese disponga di congelatori.

Il Covid-19 non conosce confini e se anche un solo Paese è in ritardo nell’immunizzazione, al virus viene dato spazio per mutare in varianti più pericolose. Lasciando da parte le ragioni etiche, questo è il motivo per cui i Paesi ad alto reddito devono aiutare i paesi a basso reddito ad acquisire le giuste risorse per vaccinare, indipendentemente dal costo finanziario.

Inoltre è molto forte oggi la sfiducia e la disinformazione in molti Paesi africani che stanno riducendo la domanda di vaccini. La campagna d’immunizzazione si scontra infatti con difficoltà organizzative, ma anche con un forte scetticismo vaccinale, legato a motivazioni molto diverse da quelle dei no-vax europei e statunitensi. È una sfiducia che non ricalca le divisioni politiche, ma è legata alla storia di sfruttamento del continente e alla malafede dimostrata in passato da aziende farmaceutiche straniere.

Sempre cattive notizie dall’Africa?

Dall’Africa sembrano sempre arrivare cattive notizie. Alcuni scienziati sudafricani il 24 novembre 2021 hanno individuato, dopo che erano stati depositati dai colleghi del Botswana sulla piattaforme del sequenziamento una nuova variante del virus sars-cov-2, chiamata B.1.1.529 e ribattezzata omicron, in alcuni campioni prelevati una decina di giorni prima. Il Sudafrica è stato lodato per la tempestività nel comunicare la notizia, i suoi ricercatori definiti eroi, ma alla fine è stato penalizzato. Nel giro di poche ore diversi Paesi hanno chiuso le loro frontiere con numerosi stati dell’Africa meridionale, nonostante l’OMS ritenesse inutili questo tipo di restrizioni. Eppure non è scontato che la variante sia nata in Africa: secondo alcune ricerche poteva essersi già staccata dal ceppo principale l’anno scorso ed essere rimasta nascosta fino ad adesso. 

In Sudafrica la variante ha segnato l’inizio di una quarta ondata pandemica. Nella settimana dal 23 al 30 novembre i nuovi casi di covid-19 sono aumentati in media di 2.756 al giorno, portando a 2,96 milioni i contagi dall’inizio della pandemia, con quasi novantamila morti. Ma già alla fine del 2021 sembra che la curva delle infezioni della variante omicron, stia progressivamente scendendo.

Molti colleghi ricercatori sospettano che, come per la variante beta, emersa sempre in Sudafrica nel 2020, la spiegazione più plausibile sia che il virus abbia potuto crescere ed evolversi nel corpo di una persona immunodepressa, probabilmente un malato di HIV/AIDS non curato. Con 8,2 milioni di persone infettate da questo virus, più che in qualsiasi altro Paese del mondo, la lotta del Sudafrica contro il Covid-19 è stata particolarmente complessa, perché questi pazienti hanno difficoltà a eliminare il virus, che può rimanere nel loro corpo più a lungo. È per questo che è necessaria una strategia combinata per curare l’AIDS e vaccinare contro il Covid-19. Inoltre numerosi studi dell’Istituto San Gallicano di Roma hanno dimostrato un’ottima efficacia del vaccino Pfizer/BioNTech nei confronti di soggetti HIV/AIDS positivi. 

La variante omicron ha riacceso il dibattito sulla necessità di assicurare più vaccini ai paesi impoveriti. È purtroppo chiaro che la comparsa della variante sia correlabile con il basso tasso di vaccinazione nei paesi impoveriti. Esiste una forte dose di “ottusità” da parte dei Paesi industrializzati e delle aziende farmaceutiche, che rispettivamente accumulano vaccini che non gli servono e che non vogliono concedere una sospensione temporanea dei brevetti.

L’esperienza sul campo in Africa Orientale

In Africa orientale uno dei Paesi nel quale l’infezione è meglio seguita è l’Etiopia: qui a fine anno 2021 i casi riconosciuti erano complessivamente 424.000 con circa 7000 decessi. A dicembre 2020 il numero dei nuovi casi al giorno era inferiore alle 1000 unità, oggi ossia un anno dopo, la curva epidemiologica è in grande ascesa ed ha già superato i 5000 casi al giorno. A fine novembre 2021 è stato proclamato lo stato di emergenza e già da alcuni mesi erano in vigore forti limitazioni agli spostamenti della popolazione, non solo in entrata ed in uscita dal Paese, ma anche all’interno del Paese stesso.

Inoltre dal 6 novembre 2020, in Etiopia è stata scatenata una guerra assurda, come lo sono tutte le guerre, tra il governo federale presieduto da Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace del 2019 e il governo legittimo del Tigray con milioni di sfollati, migliaia di morti, di stupri e violenze di ogni genere, oltre una terribile carestia che sta mettendo in ginocchio il Tigray la regione al confine con l’Eritrea. Una guerra nascosta ai mass media e all’opinione pubblica internazionale, che però ha portato alla distruzione e al saccheggio di numerosi ospedali e centri sanitari in tutto il Tigray. Tutto ciò rende di fatto impossibile il controllo dell’epidemia anche nelle regioni etiopiche limitrofe.

Già dal 1984 sono personalmente presente con un valido Team interdisciplinare dell’Istituto Internazionale di Scienze Mediche, Antropologiche e Sociali (IISMAS) in quella regione con attività di formazione, di edilizia sanitaria e di attività clinico-scientifiche nelle diverse città e aree rurali remote. Con il supporto di importanti Istituti di ricerca scientifica e clinica, tra cui il San Gallicano, l’Ospedale San Camillo-Forlanini abbiamo promossoprogetti di accoglienza, assistenza, ricerca, e formazione del personale medico ed infermieristico in diversi ospedali e centri sanitari del Paese, nell’ambito di numerose azioni di sostegno per la tutela della salute della popolazione locale. Effettuato centinaia di missioni nelle principali città e villaggi del Tigray al confine con l’Eritrea. Abbiamo fondato l’Italian Dermatological Hospital a Quhià e su richiesta del Ministro della Sanità del Tigray, al fine di potenziare lo sforzo contro le malattie infettive e diffusive abbiamo aperto l’attività clinica e didattica presso l’Ospedale Universitario Ayder di Mekelle e il Centro Materno Infantile di Adigrat

Nel 2000 nel Tigray a  Sheraro , io stesso reduce da molti viaggi di studio in Europa e negli Stati Uniti e Tedros Adhanom  Ghebreyesus attuale Direttore Generale dell’OMS, allora Ministro della Salute, con il sostegno del Governo locale, di quello Italiano e del veterinario Dr Mario Maiani che offrì un notevole contributo economico, realizzammo e il primo nucleo dell’Ospedale distrettuale per le Malattie infettive e la Maternità (Mario Maiani District Hospital) : allora morivano di parto tre donne su cinque ed anche la mortalità infantile neonatale era altissima oggi in questo Ospedale la mortalità materno-infantile è scomparsa  e l’Ospedale è anche diventato riferimento regionale per il Covid-19, facendo fronte a diagnosi, ricoveri, terapie possibili e vaccinazioni.

A causa della guerra oggi nel Tigray però oltre il 90% della popolazione ha urgente bisogno di aiuti e oltre 400 mila persone si trovano in situazione di grave carestia, già presente prima della comparsa della pandemia. La situazione sanitaria è molto difficile e credo ci vorranno anni per sconfiggere il Covid-19 e tutte le altre malattie endemiche che devastano il Tigray e l’Africa intera.  Sarà necessario uno sforzo politico, clinico-scientifico ed economico almeno pari a quello prodotto in Europa alla fine della seconda guerra mondiale con il famoso Piano Marshall. Saranno in grado le maggiori potenze industrializzate del mondo, tra cui l’Italia, a volerlo realizzare?

Africa: la beffa del Nord del Mondo

È tempo di avere il coraggio di dire che la pandemia è un problema che durerà ancora per qualche anno, non per qualche mese. Non bisogna spaventare nessuno, ma neanche dare l’illusione che la svolta sia dietro l’angolo, quando il vaccino non è ancora arrivato a tre quarti del mondo, in particolare nel continente africano. Ho spesso la sensazione che ci lasciamo prendere da una sorta di amnesia per cui non ricordiamo più cosa è accaduto prima. Sembra che tutto vada bene e che l’unico nostro problema sia vaccinare gli Italiani e il esto del mondo?

In Sudafrica, la percentuale di vaccinati con due dosi è inferiore al 24%. Sembra addirittura alta se confrontata con la media del continente. Il Burkina Faso è al 3%, l’area dove è nata l’epidemia di Ebola – Sierra Leone, Liberia e Guinea-Bissau – è ferma tra lo 0 e il 1,2 %.  La variante Omicron, sarebbe più corretto chiamarla “variante dell’ottusità” occidentale nel non consegnare vaccini all’Africa che prima è stata lasciata senza tamponi, medicinali e vaccini, poi condannata per le misure restrittive che, con il manifestarsi di questa variante, l’hanno isolata dal resto del mondo. L’Africa rischia di essere tragicamente beffata di nuovo.  


Che triste sarebbe se nel vaccino per il Covid-19 si desse la priorità ai più ricchi! E che scandalo sarebbe se tutta l’assistenza economica che stiamo osservando – la maggior parte con denaro pubblico – si concentrasse a riscattare industrie che non contribuiscono all’inclusione degli esclusi, alla promozione degli ultimi, al bene comune o alla cura del creato…
Se il virus dovesse nuovamente intensificarsi in un mondo ingiusto per i poveri e i più vulnerabili, dobbiamo cambiare questo mondo… Dobbiamo agire ora, per guarire le epidemie provocate dai piccoli virus invisibili e per guarire quelle provocate dalle grandi e visibili ingiustizie sociali. Propongo che ciò venga fatto a partire dall’amore di Dio, ponendo le periferie al centro e gli ultimi al primo posto… A partire da questo amore concreto, ancorato alla speranza e fondato nella fede, un mondo più sano sarà possibile.
Al contrario usciremo peggio dalla crisi.

Papa Francesco, Udienza generale 19 agosto 2020

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