Dieta e AlimentazioneAlimentazione correttaIl peperoncino in medicina: storia di un Nobel

Il peperoncino in medicina: storia di un Nobel

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David Julius – professore di fisiologia all’Università della California, San Francisco – fu svegliato alle 2:30 del mattino da un messaggio della nuora: Thomas Perlmann – segretario del Comitato per il Premio Nobel 2021 in Medicina – stava cercando di contattarlo per annunciargli che aveva vinto il premio per la scoperta dei recettori per la temperatura e il dolore.  Si può immaginare quanto piacevole sia stata la sua sorpresa, ma altrettanto piacevole sarà quella dei lettori nel sapere che nei suoi studi aveva usato il peperoncino, in particolare la sostanza chimica che causa la sensazione di bruciore in bocca quando lo si mangia.

Il peperoncino è forse il frutto più noto al mondo per il largo uso che da secoli tutti i popoli ne fanno come spezia in cucina, ma di certo è meno conosciuto per le azioni benefiche sullo stato di salute dell’organismo e le sue virtù terapeutiche. Eppure i popoli precolombiani (la pianta che lo produce è originaria del Messico) lo usarono inizialmente proprio come pianta medicinale. Un infuso in acqua di chili e miele o sale era adoperato per sedare la tosse. I Maia lo usavano per trattare l’asma, la tosse e il mal di gola. Gli Aztechi e i Maya mischiavano peperoncino e farina di mais per produrre il chillatolli, col quale curavano il raffreddore. Inoltre, gli Aztechi mettevano una o due gocce di succo di chili su un dente per eliminare il dolore. Erano sfruttate anche le sue proprietà antisettiche cospargendone la polvere sui cibi sospetti o era usato per fumigare le abitazioni. In Colombia, i Tucani ne facevano uso per alleviare i postumi della sbornia, mettendo nelle narici – dopo aver trascorso la notte a ballare e bere alcolici – una miscela di peperoncino tritato e acqua. L’infusione con zucchero e cannella serviva invece per alleviare il dolore addominale dopo aver bevuto notevoli quantità di alcol.

In verità, tutte le civiltà hanno fatto ricorso inizialmente alle piante per le loro proprietà medicinali, com’è diffusamente riportato nell’opera di chi scrive  Medicina e Oncologia. Storia illustrata, Gangemi Editore. Lo stesso editore ha recentemente pubblicato un altro libro illustrato – VIP. Very Important Peperoncino – in cui sono trattati i molteplici aspetti che hanno caratterizzato il peperoncino nel corso dei millenni. La pianta – Capsicum annuum – ritenuta il dono di un dio e perciò considerata sacra, giunta in Europa rapidamente si diffuse in tutto il mondo, apprezzata per il suo aspetto, per la varietà dei colori e della forma dei suoi frutti, per il delizioso profumo di questi capaci di dare sapidità a ogni pietanza, di infiammare la passione per il fuoco che generavano in bocca e molto altro. Ma io qui mi limito a considerare solo gli aspetti che hanno conferito al peperoncino un ruolo in medicina e oncologia, basato sui risultati di studi scientifici ben disegnati e ben condotti. Ciò perché nella medicina popolare sono state trattate condizioni morbose molto diverse tra loro: tosse, mal di gola, tonsillite, ulcera gastrica, mal di schiena, colera, gotta, ritenzione idrica, reumatismo, crampi, diarrea, dispepsia, mal di denti, geloni, stimolazione dell’appetito e della crescita dei capelli, paralisi e cachessia. Se ne trae l’impressione che il peperoncino sia una delle tante piante medicinali che nel corso dei secoli sono state utilizzate come panacee, perdendo di vista le sue caratteristiche peculiari che hanno suscitato interesse in molti ricercatori.

Quando in medicina imperava il pensiero di Galeno, le proprietà dei farmaci erano strettamente correlate alle qualità elementari (caldo, freddo, umido e secco) presenti nel corpo  e nell’Universo fisico aristotelico. Ogni sostanza conteneva una combinazione di queste quattro qualità che ne determinava l’azione, catalogata in gradi d’intensità. Ancora nel XVI secolo il medico e botanico Andrea Mattioli affermava che i peperoncini erano caldi fino al quarto grado e rappresentavano un medicamento molto efficace se posti sopra le sciatiche.

Per dare un’interpretazione non esclusivamente empirica ma razionale all’azione dei farmaci, bisognò attendere lo sviluppo della chimica nel XIX secolo con la conseguente possibilità di isolare in forma pura il principio attivo e anche di sintetizzarlo. La forma cristallina pura della sostanza che conferisce il carattere piccante al peperoncino fu ottenuta nel 1876 da John Clough Thresh e chiamata capsaicina. Passarono ancora molti anni prima che Nelson ne determinasse la struttura (1919) e Späth e Darling riuscissero a sintetizzarla (1930).

Affascinato dalle virtù dei prodotti naturali e desideroso di conoscere i meccanismi molecolari che stanno alla base della loro azione sugli esseri viventi, Julius era chiesto se il peperoncino poteva essere di aiuto nel delucidare un processo fisiologico di vitale importanza: il dolore. Ipotizzò che doveva esserci un gene specifico che codificava la proteina con la quale interagiva la capsaicina per produrre il suo effetto. Se fosse riuscito a identificarla  e a descrivere i percorsi molecolari attivati dall’interazione tra le due sostanze avrebbe potuto spiegare il meccanismo attraverso il quale gli esseri umani lo percepiscono. Il suo gruppo di studio mise insieme una libreria di milioni di frammenti di DNA e testando varie combinazioni di geni in cellule in coltura, riuscì a identificarne una che conferiva sensibilità alla capsaicina: nel 1997 scoprì che veniva codificata una proteina recettoriale che costituiva un canale ionico e la denominarono TRPV1. I canali ionici si trovano in corrispondenza della membrana cellulare e possono aprirsi o chiudersi in risposta a un determinato stimolo, consentendo in tal modo ai cationi (per es. calcio e sodio) di attraversare o meno la membrana. Nelle cellule nervose l’attivazione di TRPV1 consente la rapida entrata di calcio all’interno della cellula, generando una corrente elettrica che trasmette  segnali lungo tutto il neurone fino ai centri nervosi, dove sono percepiti come sensazione pungente o dolore urente. La ricerca non si fermò qui. Nel 2013, in collaborazione con il biofisico Yifan Cheng – esperto in microscopia crioelettronica, una tecnica rimarchevole per esaminare la struttura atomica delle molecole – il gruppo di Julius pubblicò la struttura molecolare dettagliata del recettore TRPV1, evidenziando la posizione degli atomi e la conformazione spaziale del canale quando è aperto e quando è chiuso. Conoscere le angolature e le fessure di queste proteine è di importanza fondamentale, poiché consente non solo di chiarire la base di diversi tipi di dolore, ma anche di scoprire nuovi farmaci a seconda del particolare sito della molecola con cui sono in grado di interagire.

La scoperta di TRPV1 ha stimolato un grande interesse nell’uso terapeutico della capsaicina, sicché unguenti e creme che la contengono sono ormai usati da tempo nel trattamento di dolori neuropatici cronici, malattie cutanee, herpes zoster, strappi muscolari, artrite, e neuropatia diabetica. In quest’ultima l’uso del cerotto è risultato efficace come i comuni analgesici consigliati in tale condizione, senza gli effetti collaterali di questi ultimi. Il primo cerotto a base di capsaicina – termo cerotto  Hansaplast ABC – era stato già messo in commercio nel 1928. La sua applicazione determina inizialmente un effetto rubefacente con sensazione di bruciore nella sede cutanea coinvolta, seguita da una piacevole sensazione di calore e infine da un effetto analgesico.

Sebbene la somministrazione della capsaicina per via orale abbia trovato una limitazione nella sua piccantezza, percepita come una sensazione spiacevole, ne è stato consigliato l’uso nel trattamento del sovrappeso e dell’obesità, poiché aumenta non solo il dispendio di energia, ma anche l’ossidazione dei lipidi. La capsaicina, inoltre, contribuisce a mantenere in stato di equilibrio il microbioma intestinale, fatto importante se si pensa che nei soggetti obesi è spesso presente disbiosi. Alcuni studi hanno dimostrato che l’aggiunta  di capsaicina alla dieta aumenta la sensazione di sazietà e determina una diminuzione dell’introduzione di calorie. In genere, l’effetto dimagrante non è di grande rilievo e si ritiene che migliori risultati possano essere ottenuti consumando il peperoncino per via orale, anziché la capsaicina in capsule.

Tutti questi effetti sembrano riconducibili all’interazione della capsaicina con i recettori TPRV1, lo stesso meccanismo che sta alla base dell’azione sul sistema cardiovascolare. La capsaicina è in grado di ridurre la pressione arteriosa, l’accumulo di lipidi e delle lesioni aterosclerotiche e, per le sue proprietà antiossidanti, diminuisce l’ossidazione di LDL, che costituisce uno stimolo allo sviluppo e alla progressione dell’aterosclerosi. Un ulteriore contributo alla protezione nei confronti delle malattie cardiovascolari è dato dalla sua capacità di inibire l’aggregazione piastrinica.

Esistono infine alcuni usi particolari, come l’applicazione della capsaicina sul canale uditivo esterno per migliorare la deglutizione in pazienti anziani affetti da disfagia e il suo uso topico nella sindrome iperemetica da cannabinoidi. Questa è determinata dal consumo cronico di marijuana e si manifesta con dolore addominale, nausea e vomito ciclico. Spesso i sintomi sono refrattari alla terapia standard, ma possono trovare giovamento dall’applicazione sull’addome di una crema a bassa concentrazione di capsaicina, che agisce attraverso l’interazione con i recettori TRPV1.

Come ogni farmaco, anche la capsaicina può determinare effetti indesiderati. Quelli più frequenti per uso topico sono rossore e bruciore, con forte irritazione nel caso delle mucose. In circa l’8% dei casi determina tosse, dovuta all’interazione con i recettori TRPV1 presenti nei nervi sensitivi delle vie respiratorie. Nel caso di soggetti asmatici, il riflesso della tosse è più accentuato e si accompagna a broncospasmo. Se ingerita in grandi quantità può determinare nausea, vomito, dolore addominale e diarrea urente. Nella stragrande maggioranza dei casi però non si osservano effetti collaterali.

Probabilmente il fatto più sorprendente per il lettore è il notevole interesse che il peperoncino ha suscitato in oncologia, al punto che esiste una grande mole di ricerche al riguardo. Seguendo l’approccio usuale della sperimentazione di nuove sostanze, la capsaicina è stata inizialmente studiata in laboratorio. Nella stragrande maggioranza degli studi sperimentali finora condotti, ha dimostrato di possedere effetti antitumorali in una grande varietà di linee cellulari di tumori umani: leucemia, mieloma, carcinoma cutaneo, glioma, cancro della lingua, del rinofaringe, dell’esofago, dello stomaco, del fegato, del polmone, del colon, del pancreas, della colecisti, della mammella e della prostata. I risultati, tuttavia, in alcuni casi sono stati contraddittori, potendo la sostanza determinare anche la comparsa di mutazioni con sviluppo di neoplasie nell’animale da esperimento.

Per gettar luce su queste contraddizioni, molti ricercatori hanno rivolto una particolare attenzione alle modalità d’azione della capsaicina, scoprendo che i meccanismi principali attraverso cui potrebbe esercitare un effetto antitumorale sono: induzione della morte cellulare programmata (suicidio della cellula), arresto del ciclo cellulare, effetto anti-angiogenetico e inibizione della comparsa di metastasi. Tutto ciò avviene interferendo con numerose vie di trasmissione dei segnali all’interno della cellula e modulando l’espressione di geni implicati nella genesi e nella progressione delle neoplasie.

In campo umano, particolare interesse hanno finora suscitato gli studi su cellule di alcuni tumori della mammella molto ricchi di TRPV1. L’attivazione del recettore da parte della capsaicina ha determinato un’inibizione significativa della crescita delle cellule  e l’induzione della morte cellulare programmata. Ma il ruolo della capsaicina sembra si possa estendere anche alla chemioprevenzione del cancro e alla terapia antitumorale in combinazione con diversi farmaci citotossici con i quali esplica un’azione sinergica.

Sembra appropriato ricordare che i risultati riportati si riferiscono a studi di laboratorio, ma le premesse sono tali da non escludere futuri sviluppi in oncologia clinica. Da un punto di vista pratico, si potrebbe concludere con l’invito ad aggiungere peperoncino alla dieta, perché oltre a migliorare il profumo e il sapore dei piatti preferiti, potrebbe aiutare a combattere i vari stadi della cancerogenesi. Come dire che non solo fa bene a tavola ma ha la capacità di convincere le cellule tumorali ad andare a… suicidarsi.






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